Quando la violenza entra nei luoghi della fiducia: una ferita culturale e collettiva

L’episodio avvenuto presso l’istituto Salesiani di Caserta il 25 luglio – un pestaggio brutale ai danni di un ragazzo di soli 15 anni durante una festa oratoriale – non è soltanto cronaca nera. È la fotografia inquietante di una deriva sociale profonda che colpisce il cuore stesso delle comunità: quei luoghi che dovrebbero essere presidio educativo, rifugio, modello di convivenza.

Il problema, oggi, non è più solo penale. Inasprire le pene può servire a riaffermare un principio di giustizia, ma non è una soluzione strutturale. Il disagio che alimenta certi comportamenti violenti nasce molto prima della punizione. Nasce nei vuoti educativi, nelle famiglie fragili o distratte, in una scuola spesso lasciata sola, in comunità che delegano l’educazione ai social, agli algoritmi, alla casualità.

L’aggressione ad Alessandro, avvenuta per un futile motivo (un semplice rifiuto a prestare lo scooter), dimostra quanto bassi siano diventati i livelli di tolleranza, rispetto e autocontrollo. Quando un “no” scatena una reazione di branco, vuol dire che il senso del limite – etico, affettivo, relazionale – è scomparso.

Non si tratta di “ragazzate”. Si tratta di una crisi culturale generazionale. E questa crisi non è responsabilità di una sola parte: riguarda la famiglia, spesso disorientata; la scuola, sovraccaricata e privata di strumenti reali; le istituzioni religiose e laiche, a volte più impegnate nella forma che nella presenza concreta; e, soprattutto, una società che ha perso il senso della comunità educativa.

Il gesto di quei cinque ragazzi è figlio di un vuoto. Ma anche la solitudine della vittima – aggredito in un luogo di festa, lasciato a terra con la mascella rotta – è un segnale drammatico: dove erano gli adulti? I testimoni? I responsabili? Quando gli spazi per i giovani si trasformano in teatri di violenza, la domanda deve essere collettiva: abbiamo davvero vigilato, oppure ci siamo solo affidati alla buona fede?

Serve una risposta forte, ma non solo repressiva. Serve ricostruire il tessuto dell’educazione condivisa. Dobbiamo riportare al centro l’educazione emotiva, la responsabilità, la gestione del conflitto, il valore della dignità dell’altro.

La violenza è un grido, spesso muto, che chiede ascolto. Punire è giusto. Ma prevenire è più umano e più efficace. Se vogliamo che oratori, scuole, piazze e centri sportivi tornino a essere luoghi sicuri, dobbiamo ripensarli come luoghi vivi, guidati da adulti presenti e preparati, e attraversati da giovani che sappiano riconoscersi come parte di qualcosa.