Valditara scuote la maturità. Una breve riflessione

Per decenni gli italiani hanno chiamato con un solo nome l’ultimo passaggio della scuola superiore: la Maturità. Un termine entrato nel linguaggio comune, capace di evocare emozioni, paure e orgoglio familiare. La parola compare ufficialmente nel 1923 con la riforma Gentile, che introdusse l’“esame di maturità classica”, destinato inizialmente solo ai licei. Era un rito selettivo e temuto, pensato per sancire non solo il livello di istruzione, ma anche l’ingresso simbolico nella vita adulta. Col tempo, la Maturità si estese a tutti gli indirizzi della scuola secondaria e rimase tale fino al 1997, quando la riforma Berlinguer sostituì il termine con quello di “Esame di Stato”, sottolineando il valore giuridico e nazionale della prova. La nuova denominazione voleva sottolineare l’uguaglianza tra i diversi percorsi di studio e marcare il ruolo certificativo dello Stato, ridimensionando la dimensione “iniziatica” che il nome “Maturità” evocava, ma per studenti, famiglie e media l’abitudine non è mai cambiata: la parola “Maturità” ha continuato a dominare il lessico quotidiano. Oggi, con la riforma Valditara, il pendolo torna indietro: il decreto restituisce ufficialmente all’esame il nome di “Maturità”. Una scelta che non è solo formale. Da un lato vuole riaffermare la dimensione simbolica e comunitaria di questo passaggio; dall’altro, però, rischia di apparire come un’operazione nostalgica, che cambia le parole senza incidere sulle criticità strutturali della scuola.

In ogni caso, la novità più rilevante riguarda il colloquio orale, che diventa obbligatorio: chi si rifiuterà di sostenerlo verrà automaticamente bocciato. La misura elimina la possibilità della cosiddetta “scena muta”, restituisce serietà all’esame e sottolinea l’importanza delle competenze comunicative. Allo stesso tempo, però, rischia di trasformarsi in uno strumento punitivo, che non tiene conto delle fragilità emotive degli studenti né della legittimità di forme di dissenso. Il colloquio viene anche ridisegnato: non ci sarà più la discussione sul documento del consiglio di classe, ma una prova centrata su quattro discipline scelte in anticipo, con attenzione alle competenze trasversali come autonomia, responsabilità e capacità critica. È un passo avanti verso una valutazione più completa, ma rimane il problema della soggettività del giudizio, che rende l’orale vulnerabile a disparità tra commissioni. Prima il colloquio partiva dal cosiddetto documento del 15 maggio, che riassumeva l’intero percorso didattico della classe. Questo garantiva una visione d’insieme del lavoro svolto e del contesto formativo, con collegamenti interdisciplinari. Ora, invece, l’attenzione si restringe a quattro discipline, con il rischio di perdere la globalità dell’esperienza scolastica.
Un altro tassello della riforma riguarda il passaggio dal PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) alla nuova formula della “formazione scuola-lavoro”. Cambia l’etichetta, e con essa l’impianto culturale: il PCTO era stato pensato come evoluzione dell’alternanza scuola-lavoro introdotta dalla riforma Renzi, con l’obiettivo di sviluppare competenze trasversali (soft skills, problem solving, capacità di collaborazione) e orientare lo studente verso il futuro percorso di studi o professionale. La nuova denominazione intende restituire più centralità alla dimensione formativa e meno a quella produttiva: non si tratta più di “inserire” lo studente in un contesto lavorativo, ma di accompagnarlo con esperienze strutturate e guidate dalla scuola. In questo senso, l’idea è condivisibile perché mette l’accento sul valore pedagogico e non sull’utilità immediata per le imprese. Tuttavia, resta il nodo di fondo: senza risorse adeguate, controlli reali sulla qualità dei progetti e una chiara definizione dei partner coinvolti, anche questa trasformazione rischia di restare un cambio di sigla più che di sostanza.

Un’altra novità riguarda la composizione delle commissioni: i membri scendono da sette a cinque, con i risparmi destinati alla formazione dei commissari e alla copertura assicurativa, estesa anche ai precari. È un segnale positivo, ma meno commissari significa anche meno pluralità di giudizio e maggior carico di responsabilità sui singoli esaminatori.

Sul piano organizzativo, l’alternanza scuola-lavoro diventa “formazione scuola-lavoro”, mentre il modello tecnico quadriennale con biennio aggiuntivo (“4+2”) entra a regime. In entrambi i casi, le intenzioni sono lodevoli – rafforzare il legame tra scuola e impresa e rendere più flessibile la formazione tecnica – ma senza una reale revisione dei contenuti rischiano di rimanere aggiustamenti nominali o sperimentazioni non pienamente integrate. Infine, anche la sicurezza delle gite viene normata: i pullman dovranno essere dotati di sistemi di frenata assistita.

Guardando l’insieme del decreto, appare evidente che molte misure hanno valore simbolico o settoriale. Alcune innovazioni vanno nella direzione giusta, ma non toccano i nodi strutturali della scuola italiana. Se davvero si vuole restituire senso all’Esame di Maturità, bisogna ripensarlo come prova interdisciplinare, capace di misurare il pensiero critico e la creatività, non solo la capacità di ricordare contenuti.

Soprattutto, la vera questione è un’altra: nessuna riforma dell’esame finale può funzionare senza affrontare il tema del reclutamento e della valorizzazione degli insegnanti. Oggi i docenti italiani hanno stipendi tra i più bassi d’Europa a fronte di carichi di lavoro sempre più complessi. Senza una politica salariale che restituisca dignità economica alla professione, ogni discorso sulla qualità della scuola rischia di restare lettera morta. Al contempo, occorre immaginare un sistema di selezione più rigoroso e trasparente, unito a percorsi di formazione iniziale e continua realmente qualificanti.

Il futuro della scuola non si gioca solo nei giorni della Maturità, ma ogni mattina in aula. Restituire prestigio e motivazione ai docenti, attraverso stipendi adeguati e un reclutamento all’altezza delle sfide contemporanee, sarebbe la riforma più radicale e necessaria. Solo così la Maturità potrà diventare il vero coronamento di un percorso educativo e non l’ennesima prova formale da superare