Brigitte Bardot, il mito che non ha mai chiesto di essere amato

“Mi criticavano perché osavo vivere”

Brigitte Bardot è morta, e con lei se ne va qualcosa che il cinema non è più riuscito a ricreare: non una semplice diva, ma un cortocircuito permanente tra corpo, immagine e libertà. Bardot non è stata solo un’attrice famosa; è stata un problema culturale, una figura destabilizzante che ha costretto il Novecento a interrogarsi su desiderio, femminilità e sguardo. Amata fino all’idolatria, respinta con la stessa intensità, ha attraversato la storia del cinema come una presenza ingombrante, mai del tutto addomesticabile.

Nata a Parigi nel 1934, cresciuta in una famiglia borghese rigida e poco affettuosa, Bardot conosce presto la disciplina – quella della danza classica -e altrettanto presto la rifiuta. La sua bellezza non è costruita, è immediata, quasi infantile, e proprio per questo disarmante. Quando Roger Vadim la dirige in E Dio… creò la donna (1956), non nasce soltanto una star internazionale, ma un nuovo paradigma visivo. Bardot non interpreta la sensualità, ma la espone, senza compiacimento e senza difese. È naturalezza che diventa scandalo. Quel film, con la celebre danza a Saint-Tropez, segna uno spartiacque, in quanto il corpo femminile non è più allusione o ornamento, ma diventa presenza centrale, autonoma, talvolta persino indifferente allo sguardo maschile che pretende di possederlo. È qui che nasce il mito Bardot, ma è anche qui che comincia la sua prigionia, perché da quel momento in poi il mondo non le chiederà più chi è, ma cosa rappresenta.

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Negli anni successivi Bardot lavora con alcuni dei grandi nomi del cinema europeo, mostrando una profondità spesso sottovalutata. In La verità (1960) di Clouzot è fragile, disperata, lacerata; in Il disprezzo (1963) di Godard diventa quasi un corpo-testo, osservato, scomposto, interrogato. La celebre sequenza iniziale del film – apparentemente erotica -è in realtà una riflessione crudele sullo sguardo, sul mercato, sul consumo dell’immagine femminile. Bardot, in quel film, sembra già stanca di essere Bardot. E infatti se ne va presto, nel 1973, a soli trentanove anni, abbandona il cinema. Non per decadenza, non per mancanza di offerte, ma per rigetto. La celebrità l’ha ferita, perseguitata, svuotata, i paparazzi diventano una presenza ossessiva, la vita privata un territorio violato. Per cui, ritirarsi non è un capriccio, ma un atto di sopravvivenza.

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Da quel momento nasce un’altra Brigitte Bardot, forse ancora più controversa: l’attivista radicale per i diritti degli animali. La fondazione che porta il suo nome diventa il centro della sua esistenza. Questo è il momento in cui la sua passione è assoluta, inflessibile, talvolta brutale nel linguaggio. Ed è proprio in questa fase che Bardot divide definitivamente l’opinione pubblica. Infatti, le sue prese di posizione politiche e sociali, spesso dure e provocatorie, le valgono critiche, accuse di intolleranza. Brigitte Bardot non chiede, del resto, di essere assolta, non è un’icona rassicurante, non è una figura da santificare. È stata libera fino all’eccesso, coerente fino all’isolamento, incapace di compromessi, ha incarnato una rivoluzione del costume senza voler essere portavoce di nulla, se non della propria inquietudine. Oggi, alla sua morte, resta un’immagine che non si lascia chiudere in un necrologio facile. Bardot è stata cinema, ma anche rifiuto del cinema; è stata desiderio, ma anche fuga dal desiderio altrui; è stata voce per chi non ne aveva, e allo stesso tempo figura che ha spesso parlato troppo, troppo duramente.

Forse il modo più onesto per ricordarla è accettarne la complessità. Brigitte Bardot non è stata un modello. È stata una frattura. E le fratture, nella storia culturale, sono quelle che lasciano i segni più duraturi.

«Ecco il suo segreto: sapeva inquietare vivendo». La frase di Simone de Beauvoir coglie con precisione ciò che Brigitte Bardot ha rappresentato. La filosofa le dedicò, nel 1960, un breve ritratto apparso prima su Esquire e poi diventato libro: non un saggio teorico, ma una meditazione esistenziale su un corpo che smette di essere oggetto. In anni in cui il cinema e l’immaginario venivano sottoposti a censura- La dolce vita, L’avventura -anche quel testo fu sequestrato, insieme a fotografie giudicate oscene: segno che il problema non era l’erotismo, ma la libertà. De Beauvoir intuisce che Bardot non scandalizza per ciò che mostra, ma per ciò che è: una coscienza incarnata. «L’uomo si sente a disagio se, invece di una bambola di carne, stringe tra le braccia un essere che lo osserva e lo giudica». Una donna libera non è una donna “facile”, ma una presenza che resiste alla riduzione a immagine. Bardot questo lo sapeva senza teorizzarlo, lo viveva. Per questo inquietava. E per questo la morale del tempo non riuscì a sopportarla. L’attrice raccontò la propria vita in B.B. (1996), un’autobiografia in cui il mito diventa voce diretta. Bardot parla di sé senza cercare rassicurazioni, mostrando che il vero scandalo non era ciò che mostrava, ma la coscienza di essere completamente libera.

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