Morire di lavoro, ingiustizia quotidiana.

Brandizzo

Un giornalista non dovrebbe mostrare emozioni e opinioni personali, ma quando una tragedia tocca la tua famiglia seppur allargata, non può, come ogni essere umano che si rispetti, versare una lacrima.

I cinque operai deceduti nell’assurda tragedia di Brandizzo, pur non conoscendoli personalmente, facevano parte della mia famiglia, quella famiglia che si occupa di trasporto di anime umane e mercanzie su rotaia.

Anche se oggi il degrado sociale, spesso accalappia le menti negli effimeri circuiti dei social, pilotato da influencer, ammaliatori e manipolatori, chi davvero crea e costruisce è l’operaio, quello, che si sporca le mani e si spacca il deretano, quello, che la stanchezza a fine turno lo sfinisce davvero.

Nel mondo ferroviario, gli operai sono quelli, che fanno i lavori duri, prevalentemente lavorano di notte e ancora oggi, molti lavori li svolgono manualmente in prima persona.

Per i ferrovieri, chi lavora a vario titolo sulle rotaie non può, che essere un collega. Non importa se esso sia macchinista, capotreno, capostazione, se sia esso agente polfer, operaio, pulitore, addetto alla formazione treni, manutentore o ristoratore delle vetture ristorante. La parentela nel mondo ferroviario, non solo prescinde dal luogo di residenza lavorativa, ma soprattutto prescinde dal ruolo e dal profilo rivestito.

La similitudine negli orari e nelle difficoltà affrontate quotidianamente crea una livella sociale, che affratella i componenti di tutte le ditte e società, operanti nel mondo delle Ferrovie dello stato e non solo.

La tragedia che si è realizzata in Piemonte nella stazione di Brandizzo, ha creato un’altra ferita nel cuore di chi lavora nell’universo della rotaia, purtroppo sono tante le tragedie già avvenute. Tutti purtroppo ricordiamo, quella di Codogno del 2020 dove persero la vita due miei diretti colleghi macchinisti di frecciarossa o le vittime dell’incidente tra Andria e Corato nel 2016 o il deragliamento del treno nei pressi di Brescia nel 2022 e purtroppo il triste elenco non finisce qui.

Quando mi chiedono della sicurezza ferroviaria, nonostante i tragici incidenti trascorsi, rispondo sempre con molta fierezza, che in Italia, l’attenzione è molto alta e che siamo sicuramente la rete più sicura al mondo.

Il problema si pone invece sul fatto, che molto spesso i tragici incidenti si sono verificati per quelli, che sommariamente vengono definiti errori umani, disattenzioni, che non dovrebbero mai accadere, ma che nella casistica dei miliardi di operazioni effettuate ogni giorno, risultano purtroppo statisticamente trascurabili.

Ogni giorno nel mondo lavorativo in generale muoiono di lavoro tre persone, ogni giorno tre famiglie restano senza un loro congiunto per effetto del nobile gesto di lavorare. Ogni volta si parla di sicurezza, si fanno buoni propositi, ma ogni giorno tre persone continuano a morire, spesso nella rassegnazione e nella indifferenza dei più.

Questa volta sono cinque le famiglie, che non avranno più l’affetto, di papà, mariti, figli, fratelli. Sono cinque, uomini, che nel momento di un soffio di vento e un sibilo di rotaia, non torneranno più a casa.

Cinque uomini sono, “molto di più assai”, rispetto ad uno e così l’opinione pubblica nazionale si sente improvvisamente violentata, catturata e coinvolta, quindi fiumi di parole, di inchiostro, di congetture, di processi mediatici, trasmissioni televisive con ospiti spesso inesperti o ignoranti in materia. Al contempo, qualche misero  sciacallo, mette in atto biechi tentativi di commuovere gli spettatori o i lettori con interviste strappalacrime ai familiari attoniti.

Giuseppe Sorvillo
Giuseppe Sorvillo

Tra le cinque vittime, decedute, una era anche di origine casertana, dell’agro caleno, si chiamava Giuseppe Sorvillo di soli 43 anni, con la moglie proveniva da Sparanise, e come tanti nostri conterranei era andato al nord in cerca di una vita migliore, in cerca di quel lavoro, che, contornava di dignità, la sua vita da uomo di sport e di generosità verso i più deboli. Mi ha colpito sul suo social, una frase, che aveva condiviso: “La vita è troppo breve, per preoccuparsi di quello che pensa la gente” La sua vita sarà stata anche breve, ma di sicuro lascerà nelle menti di quanti lo hanno conosciuto e dei suoi cari, il ricordo di un uomo, che ha fatto della dignità il suo credo. Giuseppe viveva, con la moglie e i suoi bimbi piccoli, che dovranno rinunciare all’affetto di un padre perché fiero lavoratore, a poche centinaia di metri, da dove ha perso la vita.

 

Quando i riflettori si spegneranno, resterà il dolore di cinque famiglie e l’arida trafila giudiziaria, che troverà un capro espiatorio ma, non riporterà, a cinque famiglie l’affetto perso per sempre.

Concludo nel ricordo dei versi finali di una celebre poesia del 1930 sulle morti per lavoro, di Raffaele Viviani, “Fravecature”.

…  E quanno a’ casa ‘a portano, ( la moglie)

trovano e ppìccerelle

‘nterra, addurmute.

E’ luceno  ‘nfaccia

ddoie lagremelle.