“Criminalità socializzata”: un testo per comprendere e riconoscere la mafia

A cura degli allievi della IV E del liceo classico indirizzo comunicazione “D. Cirillo”

Il teatro “Smoda” di Sant’Arpino invita alla riflessione.  Professionisti e studenti a confronto sulle origini e i rischi della criminalità organizzata

“Meno ricchezza abbiamo, meno libertà abbiamo, meno dignità abbiamo, se il potere è nelle mani delle mafie.” È questa una delle frasi più significative emerse durante la conferenza dedicata alla presentazione del libro “Criminalità socializzata” di Claudio Cordova – autore, giornalista, fondatore e direttore del quotidiano online Il Dispaccio, nonché collaboratore della Commissione parlamentare antimafia.

L’incontro si è svolto il 6 maggio 2025 al Teatro “Smoda” di Sant’Arpino, grazie all’organizzazione e alla conduzione del professore, attore e artista Gianni Aversano, leader del Trio Napolincanto. Insieme all’autore hanno preso parte al dibattito:
Francesco Graziano, magistrato presso l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione,
Pasquale Vitale, docente di storia e filosofia presso il liceo classico e musicale “Domenico Cirillo” e giornalista pubblicista per BelvedereNews.

. Martina Iorio, studentessa del terzo anno del liceo Cirillo, che ha letto, con molta espressività alcuni passi del testo di Cordova

L’incontro ha toccato tematiche profonde: dall’impatto culturale e sociale delle mafie all’uso delle nuove tecnologie e dei social media come strumenti di propaganda e controllo.

Mafia: comunità disgregate e falsa protezione

La vera vittoria della mafia – è stato sottolineato – non è solo nell’infiltrazione negli appalti, nella politica o nel traffico di droga. È piuttosto nella disgregazione delle comunità. Le mafie attecchiscono dove lo Stato è assente, dove mancano senso di appartenenza e identità collettiva.

Secondo Cordova, le radici della criminalità organizzata sono riconducibili anche al periodo post-unitario: l’Unità d’Italia fu vissuta da molte popolazioni del Sud, non come un riscatto rivoluzionario, bensì come una forzatura imposta dall’alto. In quei vuoti lasciati dallo Stato, le mafie si sono insediate, diventando potere sostitutivo.

Da sempre, le mafie comunicano e manipolano. Oggi lo fanno attraverso i social, ieri tramite miti, racconti, simboli. Hanno creato un sistema simbolico e affabulatorio capace di attrarre soprattutto i giovani, facendo leva su concetti come “famiglia”, “onore” e “protezione”.

L’origine dei nomi e il fascino del mito

Durante l’incontro, il professor Vitale ha stimolato una riflessione sull’etimologia dei nomi delle organizzazioni mafiose.
Cordova ha spiegato come ‘Ndrangheta derivi dal greco “ἀνδρὸς ἀγαθός” (andros agathos), cioè “uomo valoroso”, rivelando così la natura mitopoietica della criminalità: attraverso il linguaggio e i simboli, le mafie costruiscono un’immagine eroica di sé.

A tal proposito, Cordova ha anche citato la leggenda dei tre fratelli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, fondatori mitici rispettivamente di ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra, impegnati in un viaggio cavalleresco di vendetta e giustizia. Un mito creato ad arte per legittimare la violenza sotto una causa nobile.

La Camorra e la società dei consumi

Durante la presentazione del libro il magistrato Francesco Graziano e Claudio Cordova  hanno parlato anche  della trasformazione della Camorra napoletana dalla sua nascita a oggi. In quartieri popolari come il Vomero e l’Arenella, le classi subalterne hanno spesso trovato nelle organizzazioni criminali un’apparente forma di riscatto sociale. Lo stile della Camorra, improntato all’ostentazione e all’edonismo, l’ha sempre distinta dalle altre mafie. Tuttavia, le nuove generazioni di camorristi, spesso attive sui social, sono, è vero, più visibili, ma anche meno raffinate, capaci di generare allarme sociale più che vera egemonia.

Ndrangheta: tra religione e istituzioni

Cordova ha poi analizzato la struttura elitaria e para-istituzionale della ‘Ndrangheta a partire  dalla nascita de “La Santa” negli anni ’70. Un’organizzazione interna riservata ai vertici, che ha garantito legami con ambienti politici, religiosi e finanziari.

Interessante il focus su religione e mafia, un binomio inquietante che diventa davvero preoccupante. Si pensi-ha sottolineato Cordova-alla Madonna di Polsi diventata simbolo e rifugio spirituale per molti boss come Giuseppe “Pino” Pelle e Antonio Nirta, che si autodefinivano “bracci punitori della Madonna”. La religione, in questi contesti diventa strumento di manipolazione collettiva e autoassoluzione morale.

“Esiste un Dio dei potenti e un Dio degli oppressi, un Dio dei mafiosi e un Dio degli antimafiosi.”

Sport e controllo del territorio

Altro tema toccato è stato quello dello sport come strumento di potere. Le cosche investono nelle squadre minori non per profitto economico, ma per visibilità e controllo sociale. Far sapere che una squadra locale è sotto l’influenza di una cosca serve a consolidare la loro autorità nel territorio.

La mafia come rete di relazioni

Il professor Vitale e il magistrato Francesco Graziano hanno poi sottolineato l’elemento  socio-relazionale del fenomeno mafioso: le mafie sopravvivono grazie a una fitta rete di relazioni, che si estendono alla politica, alla religione, alla società civile.

Cordova ha ribadito che, proprio a causa di questi rapporti molto fitti, non basta studiare le mafie da un punto di vista militare o giudiziario: bisogna ascoltare le voci dall’interno, analizzare i codici culturali e i meccanismi di legittimazione.

Una conclusione e un monito

“La mafia non è filantropica. Non adotta bambini, non dona per altruismo. Ogni gesto ha un ritorno.”

La mafia è parte integrante, seppur nascosta, della nostra quotidianità. Si annida nei linguaggi, nei gesti, nei silenzi. Si maschera da “famiglia”, si fa chiamare “onorata società”, ma in realtà è nemica della comunità.

In conclusione, Cordova ha richiamato Aristotele e il concetto di amicizia come fondamento della polis. Solo attraverso legami autentici e una politica unitaria si può costruire una società libera dalle mafie.

L’incontro, intenso e partecipato, ha lasciato negli studenti uno stimolo forte: non accettare la mafia come parte della normalità, ma denunciarla, combatterla e isolarla.
Un invito a renderla sempre meno “socializzata”

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