La ricostruzione si basa sulle risposte del prof. Angelo D’Orsi ad alcune mie domande di un’intervista pubblicata sulla rivista Figure dell’immaginario.
Vedi link http://www.figuredellimmaginario.altervista.org/pdf/Intervista_D_ORSI.pdf
-Il sionismo, ossia il movimento prima soltanto di idee e poi accompagnato da un’azione pratica, volto a dare agli ebrei una patria statuale, nasce fin dal tardo Ottocento, trovando poi nell’ungherese Theodor Herzl il suo principale animatore a fine XIX secolo. Si badi che quella è un’epoca di rinascita e di rilancio dell’antisemitismo, non più su base religiosa, ma essenzialmente politica. L’Affaire Dreyfus è nel cuore di questo drammatico svolgimento della storia, e, sempre nella Francia dove un personaggio come Eduard Drumont metteva alla gogna pubblicamente gli ebrei francesi, viene costruito uno dei più clamorosi falsi storici, i Protocolli dei savi di Sion, ad opera del ramo locale della potentissima polizia segreta dello zar di Russia. Dunque il sionismo nasce come risposta a questa nuova ondata di antisemitismo, che a sua volta si colloca all’interno di pulsioni crescenti di nazionalismo e imperialismo, prodromi delle guerre del Novecento. Ma nel suo seno varie furono le componenti, che, sintetizzando, andavano dalla sinistra estrema alla destra estrema, con numerose e forti contraddizioni. E va altresì osservato che inizialmente la Palestina, come sede dell’insediamento ebraico e della costruzione di uno “Stato” per un “popolo senza Stato”, fu soltanto un’ ipotesi: lo stesso padre del Sionismo Herzl accanto alla Palestina pose, come possibile sede, l’Argentina. Anche se nel corso dei secoli, nella comunità israelitica, nel corso del Seder, la Pasqua ebraica, si proferiva sempre la frase, tra il saluto e l’augurio, “L’anno prossimo a Gerusalemme”.
Tuttavia la prima ondata di colonizzazione ebraica della Palestina era cominciata prima ancora che venisse pubblicato il libro programmatico di Herzl, Lo Stato ebraico.
Eppure va precisato, che lo stesso Herzl, anche quando ipotizzò la Palestina, immaginata come terra senza popolo, quale sede per un popolo senza terra, sulla base di un misto fra menzogna e disinformazione, pensava allo Stato futuro degli ebrei, come una comunità aperta, che avrebbe dovuto adottare una lingua occidentale (preferibilmente il tedesco, per la vicinanza con lo yiddish). L’attuale lingua ebraica fu inventata, per così dire, da uno studioso, tale Yehuda, all’inizio del XX secolo, a partire, naturalmente, dall’ebraico antico. Insomma, il processo era ormai partito, andando in una direzione che si precisò rapidamente nei decenni seguenti, e che più che a Herzl sembrò ispirarsi a Vladimir Jabotinsky, un ebreo fanatico, che si può definire fascista, che non a caso ebbe rapporti con il fascismo italiano e lo stesso Mussolini.
Soprattutto, alla luce degli sviluppi successivi dello Stato israeliano, questo realistico esponente di una politica della violenza (si rendeva conto che solo così sarebbe stato possibile “rubare” terra a un popolo per insediarne un altro), sembra prefigurare i vari Ben Gurion, Golda Meier, Moshe Dayan, Begin, Sharon, Olmert, Netanyahu, ma almeno con l’onestà di dire le cose come stavano, senza le menzogne a cui gli altri sono ricorsi. La Dichiarazione Balfour (1917) con la quale il governo britannico si dichiarava a favore della creazione di un “focolare ebraico” in Palestina costituì la base del Mandato affidato al termine della Prima guerra mondiale (nel 1920) precisamente ai britannici di governare quella terra. Da quel momento cominciò a crescere l’insediamento sionistico, con le prime rivolte degli abitanti palestinesi. Avvio di una storia che conduce ai nostri tempi.
Il tentativo genocidario teorizzato lucidamente e messo in atto in modo scientifico dai nazisti ai danni del popolo ebraico, lora colpa irredimibile, ha ovviamente costituito il punto di partenza del rilancio del sionismo, e la base per la realizzazione finale: uno Stato. Seguendo le orme di Jabotinsky, gruppi sionisti furono responsabili di una politica di autentico terrorismo, con uccisione di innumerevoli innocenti. Un razzismo sotterraneo guidava l’azione ebraica, nei confronti di un popolo giudicato manifestamente “inferiore”, incapace di realizzare una vera comunità nazionale in termini statuali: e quella che è stata chiamata da uno studioso contemporaneo, Shlomo Sand, ebreo oggi messo all’indice, “l’invenzione del popolo ebraico” divenne la base culturale per tradurre in pratica il progetto. La fine della guerra mondiale, con la sconfitta dell’“Asse”, e la rivelazione dei campi di sterminio, costituì un’occasione eccellente non solo per la ripresa del sionismo, ma per una formidabile accelerazione politico-militare da una parte, e dall’altra per lo sfruttamento a fini propagandistici dell’Olocausto, avviando un altro processo, che un altro studioso ebraico (al quale è stato vietato l’ingresso in Israele), Norman Finkelstein, ha chiamato “l’industria dell’Olocausto”. Come ha spiegato Walter Laqueur nella sua monumentale opera dedicata alla Storia del sionismo, è stata la nuova ondata di antisemitismo nazifascista degli anni Trenta, ancor prima della progettata “soluzione finale”, a far crescere esponenzialmente il progetto di fare della Palestina la patria degli ebrei scacciati e perseguitati: in tal senso, l’antisemitismo appare necessario al sionismo, lo giustifica e nepredispone gli esiti politico-statuali. Quello che colpisce è il prevalere dell’idea di fare di questo nuovo Stato un recinto aperto solo agli ebrei, un Stato etnico e religioso, una etnocrazia, che recupera anche se non in modo esplicito, tranne che in minoranze estreme, accanto al principio biblico della “terra promessa”, l’altro, del “popolo eletto”. Ma nel cuore stesso del sionismo c’è la paura dell’assimilazione degli ebrei nelle diverse comunità nazionali, vista come un pericolo persino maggiore della persecuzione, in non poche tendenze interne al movimento. In ogni caso, le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale sottovalutarono gravemente, sia per ignoranza, sia per il senso di colpa verso la Shoah, i rischi dell’operazione conclusa nel maggio 1948, con la nascita di Israele, nei termini appunto di Stato etnico, che, perdipiù, assumeva pericolosi tratti di commistione fra politica e religione.
Le potenze che consentirono la nascita di Israele sottovalutarono i costi umani e politici di quella operazione, con settecentomila palestinesi espulsi e di colpo trasformati nelle vittime sacrificali di un nuovo olocausto. E l’inizio di una diaspora che non poteva compensare quella ebraica. Ma che creava dolore, ingiustizia, e sete di vendetta. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi. Le espulsioni cominciarono già prima della nascita dello Stato di Israele, ma divennero gigantesche con quell’atto fondativo, che fu per i Palestinesi la Nakba: 15 maggio 1948, quando Ben Gurion, considerato il “padre della patria”, proclamò “lo Stato ebraico in Palestina”. La base era stata la risoluzione della neonata Organizzazione delle Nazioni Unite, n 181, del 1947, che tracciava una linea divisoria nel territorio palestinese assegnando grosso modo un 55% agli ebrei e il restante 45 agli arabi. Rimanevano fuori i “luoghi santi”, Gerusalemme, Betlemme, che avrebbero dovuto avere carattere internazionale, protetto, e aperto alle diverse religioni. Una successiva risoluzione (n. 194) ribadiva quei princìpi. La risposta fu un’azione militare degli Stati arabi circumvicini, che vedevano in Israele un pericolo mortale per la loro gente. Ma essi furono sconfitti, e furono costretti (anche dalla inerzia della
comunità internazionale”) ad accettare un immediato primo ingrandimento dello Stato sionista, con una nuova, ben più pesante ondata di espulsioni: fu il culmine della diaspora palestinese. E Gerusalemme fu divisa, manu militari, in due parti, una ebraica (Ovest), l’altra araba (Est). Con una ulteriore, gravissima, anche sul piano simbolico e politico, violazione delle risoluzioni Onu. Cominciava a palesarsi allora una complicità attiva o passiva a carattere internazionale, di cui beneficiò largamente il nuovo Stato, che intanto riceveva aiuti finanziari enormi dagli Stati Uniti e dalle comunità israelitiche più ricche sparse in varie nazioni. Israele assumeva ben presto il ruolo di Stato mandatario del capitalismo statunitense, e suo gendarme in seno al mondo arabo, un mercato per le armi assai proficuo, tanto che ben presto il suo esercito fu non solo il più potente della regione, ma uno dei primi del mondo. Jabotinsky ,insomma, aveva vinto. E la “pulizia etnica” era cominciata prima della nascita dello Stato sionista, come ha documentato inappuntabilmente un altro studioso ebreo “maledetto” dagli israeliani sionisti, Ilan Pappe. Se gli Stati sono fondati sulla violenza, questo lo fu all’ennesima potenza: espulsioni, uccisioni, sottrazione e devastazioni del territorio, con un tentativo, portato avanti conseguentemente nei decenni successivi, di cambiare il paesaggio, di cancellare la memoria stessa (si è parlato a proposito di “memoricidio”) del popolo palestinese, per dimostrare che quella era davvero una terra senza popolo, dopo la prima diaspora ebraica, e che gli ebrei non soltanto avevano il diritto di ritornarvi (fin dal 1950 fu proclamato con apposita legge il diritto di ogni ebreo nel mondo a “ritornare” nella “terra promessa”, finalmente divenuta rifugio sicuro per chiunque di loro), ma così facendo esercitavano un dovere, non solo verso la storia ebraica, ma verso quella regione, che veniva sottratta agli arabi “fannulloni”, e trasformata e resa ricca e felice: per gli ebrei. Lo Stato di Israele si fondò in sostanza sull’apartheid, che venne perfezionato nel corso degli anni La guerra lampo di Moshe Dayan, del 1967, segnò da questo e da molti altri punti di vista, a cominciare dalla nuova massiccia ondata di espulsioni (qualche centinaio di migliaia di palestinesi) un punto di non ritorno. Fece cadere anche le residue tracce di un sionismo di sinistra, e fece compiere il passo decisivo di Israele verso la dimensione di Stato colonialista, imperialista, militarista e razzista, longa manus dell’“Impero Americano”. In tal senso, si può parlare, affiancando al 1967 la successiva sconfitta araba del 1973, di un uno-due micidiale ai danni degli arabi, ma anche ai danni di quanto rimaneva di democrazia e di apertura culturale nella società israeliana, che si chiudeva da allora sempre più in se stessa, infilandosi in quello che un grandissimo intellettuale di doppia cittadinanza, palestinese e statunitense, Edward Said, chiamò “il vicolo cieco di Israele”. La guerra del Libano del 2006 segnò ,però, una inversione di tendenza nelle relazioni politico-militari dell’area: fu quella la prima sconfitta dell’esercito israeliano, da parte di Hezbollah. Fu una lezione che non servì. Ormai il vicolo cieco era stato imboccato. E una intera società vi era entrata incapace di uscirne. Guerra chiamava guerra, gli investimenti in armi sempre più potenti e sofisticate crescevano, gli aiuti statunitensi diretti quasi interamente alla “difesa” israeliana raggiungevano cifre astronomiche. E le forze armate dello Stato ebraico si dotavano persino di armi vietate dalle convenzioni internazionali, del resto mai riconosciute dagli israeliani, che continuavano a rimanere del tutto sordi alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu tutte di condanna per le continue violazioni di diritti dei palestinesi perpetrata dai diversi governi di Tel Aviv. Che addirittura venne sostituita con atto unilaterale (non riconosciuto dall’Onu, e dalla totalità degli altri Stati, eccetto gli Stati Uniti), da Gerusalemme come “capitale eterna unica e indivisibile”. Crescevano anche gli sforzi propagandistici per esportare nel mondo occidentale una immagine rassicurante, specie attraverso la letteratura, le arti, l’architettura, la musica, dello Stato israeliano, “unica democrazia del Medio Oriente”. Una democrazia che si nutriva di guerra, in una spirale che non poteva celare il gusto bellicistico, la seduzione che la sindrome dell’accerchiamento, con una intrinseca giustificazione dell’aggressività, produceva. Le successive guerre, condotte contro la Striscia di Gaza, accanto alla violenza esercitata quotidianamente in Cisgiordania, le migliaia di palestinesi arrestati illegalmente e illegalmente detenuti, l’edificazione di un muro interno agli stessi territori palestinesi, fanno tutt’uno con l’incessante politica di espansione, che sottrae terra ai palestinesi, creando “colonie” di insediamento ebraico, con l’uso della forza militare per scacciare gli abitanti, distruggere le loro dimore, e poi “proteggere” i coloni ebrei. Il tutto sempre senza alcuna sanzione e concreta da parte degli organismi internazionali, e nella connivenza di tutti gli Stati occidentali, Italia compresa, naturalmente. Eppure mentre l’orgia di sangue non cessava e il delirio di onnipotenza accecava gli israeliani, la soluzione dei “due Stati per due popoli”, che un tempo tanti a sinistra consideravano moderata e minimalista, e che oggi appare utopica, è uscita da qualsivoglia agenda politica. La classe politica dello Stato ebraico, seguita in modo sempre più massiccio dalla sua popolazione, con dissensi ormai del tutto marginali, mira invece a scoraggiare, allontanare, espellere i palestinesi, rubando via via quei fazzoletti di terra che rimangono nelle loro mani, sotto un “controllo” sempre più occhiuto e violento delle forze israeliane: il solo progetto politico in campo, per gli Israeliani, è quello di dar vita a una “Grande Israele”. Gaza (che deve essere “punita” per aver dato la maggioranza a Hamas, in elezioni certificate come democratiche dagli osservatori internazionali),in tale ottica può diventare un “grande parcheggio” per gli israeliani (espressione diffusa).
Situazione attuale
Attualmente le proteste della famiglie arabe minacciate di espulsione dal quartiere di Sheik Jarrah sono considerate il casus belli di questo ultimo conflitto. In realtà come riportato sopra prima del 1948 il 77% delle proprietà nel lato Ovest di Gerusalemme appartenevano ai palestinesi, sia cristiani che musulmani, ma tali beni sono stati espropriati e venduti allo Stato o al Fondo nazionale ebraico. Attualmente, inoltre, gli ebrei possono reclamare le case che possedevano a Gerusalemme prima del 1948 ma questo diritto non è previsto per i palestinesi.