Nonostante un’affermazione schiacciante del “Sì” su tutti i quesiti, i referendum su lavoro e cittadinanza sono stati invalidati dal mancato raggiungimento del quorum. Questa circostanza porta ad una riflessione amara sul ruolo della politica, sull’egoismo sociale e sulla disinformazione.
Il seggio campione
Presso un seggio campione ospitato in un istituto scolastico di Caserta, dove un rappresentante di lista ha prestato servizio, si è registrata un’affluenza finale del 38,59%: hanno votato 203 cittadini su 526 elettori iscritti. Un dato insufficiente per validare i referendum abrogativi, che richiedono la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto.
Tuttavia, nel merito delle proposte, il risultato per questo seggio è stato chiaro: il “Sì” ha prevalso in maniera netta su tutti e cinque i quesiti.
I dati registrati
Quesiti sul lavoro: N. 1: Sì 97% – No 3%; N. 2: Sì 94% – No 4%; N. 3: Sì 96% – No 4%; N. 4: Sì 95% – No 5%
Quesito sulla cittadinanza: N. 5: Sì 78% – No 22%
Il “No”, però, ha vinto comunque perché a suo favore ha giocato l’astensionismo, un potente “alleato” in occasione di consultazioni referendarie. È, infatti, il meccanismo del quorum a determinare la validità della votazione, e in assenza di partecipazione adeguata, il risultato non può essere recepito.
Un esito democratico, certo, ma che lascia aperte molte riflessioni politiche e sociali.
Sul piano simbolico, il quesito sulla cittadinanza ha mostrato una flessione nel consenso rispetto agli altri. Il 78% di “Sì” resta maggioranza, ma ben distante dalle percentuali schiaccianti raggiunte dai quesiti sul lavoro. Una dissonanza che risulta difficile da accettare in un contesto dichiaratamente progressista.
L’ombra del Jobs Act e la coerenza politica
I quattro quesiti sul lavoro miravano a smantellare alcune parti del Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Renzi (2014-2016), e fortemente criticata dai sindacati per l’introduzione del contratto a tutele crescenti, che ha di fatto indebolito l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori per i nuovi assunti.
Il Partito Democratico, promotore della riforma in quegli anni, ha oggi sostenuto i referendum per abrogarla insieme ad altre forze di sinistra tra cui PSI, 5S e AVS, e alla CGIL. Un cambio di rotta significativo per il PD, che può essere letto come evoluzione politica, o come incoerenza, a seconda dei punti di vista. Ma, cambiare idea dovrebbe essere lecito.
Una questione di umanità e consapevolezza
Il vero dato preoccupante, forse, è l’incapacità della politica di suscitare empatia e senso civico su temi delicati come quello della cittadinanza. Il quesito n. 5 non doveva essere terreno di scontro, ma un’occasione condivisa per mostrare umanità e civiltà. Eppure, anche su questo punto, si è preferito lo scontro frontale.
Un errore forse non calcare l’onda di un’opportunità sociale
Il Partito Democratico – e gli altri promotori – hanno forse commesso un errore trasformando un’opportunità di riforma in una battaglia politica. Le leggi più significative e durature si sono sempre costruite e poi promulgate con il dialogo bipartisan, come è avvenuto per quelle contro la violenza di genere. La riduzione del tempo minimo per chiedere la cittadinanza da 10 a 5 anni, meritava forse lo stesso percorso.
Tra egoismo sociale e riforme mancate
“Siamo umani quando ci fa comodo, o quando è di moda?”. Un interrogativo che si pone qualcuno sui social e che colpisce nel segno? Probabilmente si, perché spesso dietro l’inerzia politica si cela un egoismo diffuso e trasversale. E ci si illude di aver fatto il proprio dovere magari con un’offerta a un clochard, dimenticando le responsabilità collettive.
Prospettive future
Il risultato del voto potrebbe avere conseguenze anche sulla tenuta democratica degli strumenti referendari. Si discute infatti, da un lato, di innalzare il numero di firme necessarie da 500.000 a un milione; dall’altro, c’è chi propone di abolire del tutto il quorum.
Due visioni opposte che rispecchiano un Paese diviso.