L’appuntamento è il 23 novembre 2025 a Valle di Maddaloni, presso l’Oratorio Don Peppe Diana, alle 16:30.
Si parlerà, come sempre nelle serate organizzate dal direttore e ideatore, Michele Letizia, di arte, cultura e libri.
A ridosso della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre, non poteva mancare l’argomento “donna”. La mostra itinerante dell’artista Iolanda Morante, infatti, è incentrata proprio su questo argomento.
Elisa Letizia, giovane studentessa (Master) presso l’Università di Madrid, ex redattrice universitaria e appassionata di arte, cultura e informazione, per l’occasione ha condiviso queste sue riflessioni sulla pratica dell’infibulazione femminile. Elisa è una collaboratrice culturale laureata in Mediazione Linguistica e Culturale. Ciò le permette, insieme alla sua sensibilità, di cogliere sfumature culturali che magari sfuggono ai più.
Il peccato d’essere donna
“Da più di tremila anni le famiglie credono fermamente che le figlie a cui non viene praticata l’infibulazione siano impure, perché quello che abbiamo tra le gambe è impuro e deve essere rimosso e poi chiuso, come prova di verginità e virtù…” Queste erano le parole di Waris Dirie rivolto alle Nazioni Unite, ex modella e attivista contro l’iniqua pratica dell’infibulazione femminile, un’atroce “tradizione” che lei stessa subì tra i 4-5 anni. Nata in Somalia da una famiglia nomade appartenente al vasto e potente clan Darod; a circa 15 anni scappa da casa lasciando la famiglia per sfuggire ad un matrimonio combinato con un sessantenne vedovo. Dopo un lungo e travagliato viaggio nel deserto e un periodo trascorso nella capitale somala, Waris arriva a Londra dove lavora come donna delle pulizie presso un McDonald e qui che viene notata per caso da Terry Donaldson, fotografo allora molto noto. Inizia così la sua carriera da modella, e infine anche scrittrice di “Fiore del deserto” da cui è tratto l’omonimo film del 2009; fiore nel deserto, questo è anche il significato del suo nome e nessun altro è più adatto a simboleggiare la sua forza e la sua audacia, lei che come un fiore raro è riuscita a sbocciare nel mezzo di un deserto ed è divenuta esempio per altre migliaia di fiori sepolti sotto un velo di sabbia arida celante una crudele realtà. La sua storia è una preziosa testimonianza di sofferenza e di una realtà a molti ancora sconosciuta: quella di una bambina sottoposta ad una crudele pratica voluta da una società troppo legata alla promessa di “valori” imprescindibili quali la verginità e la purezza, necessari affinché una bambina possa diventare una donna degna di appartenere al clan, “Una ragazza a cui non è stata praticata l’infibulazione non può sposarsi quindi viene espulsa dal suo villaggio e trattata come una puttana.” Questa pratica condanna migliaia di bambine e donne a malattie fisiche e psicologiche, se non alla morte. Waris sopravvisse ma le sue due sorelle morirono entrambe: Sofia morì dissanguata dopo essere stata mutilata e Amina morì durante il parto con il bambino ancora in grembo.
La mutilazione genitale è ancora una realtà, essa ha lo scopo di impedire alle ragazze rapporti sessuali e consiste nella escissione parziale o totale dei genitali esterni. Questa pratica si è diffusa anche nel mondo occidentale a seguito delle migrazioni; in Italia è divenuta reato nel 2006. Waris ha scelto di sostenere in prima persona la lotta contro una pratica disumana che credeva una norma dell’essere donna. Lotta per 125 milioni di bambine che tra gli 8 e i 14 anni subiscono l’infibulazione, e per le donne che diventeranno, per chi di esse riuscirà a sopravvivere. Non si tratta solo di una lotta al femminile, riguarda tutti perché qualunque cosa accada ad uno di noi ha un effetto su tutti, e questo Waris lo aveva capito bene: “Quando ero una bambina dicevo che non volevo essere una donna. Perché essere una donna quando è così doloroso? Adesso che sono cresciuta sono orgogliosa di essere chi sono.”