Capua- Le serate del Teatro Ricciardi hanno sempre qualcosa di speciale, di intimo. Questo piccolo gioiello di Capua sembra essersi trasformato in un osservatorio privilegiato, il Ricciardi non si limita a proiettare film ma costruisce discorso, memoria, dibattito. Merito soprattutto di Francesco Massarelli, che organizza e conduce gli incontri con una misura rara. È un’arte anche questa, ospitare, e lui la esercita come chi prepara una tavola bella, dove ognuno trova posto per raccontarsi.
I posti per la serata sono volati via in un soffio. Il Ricciardi era pieno fino ai palchetti laterali per accogliere Ludovica Rampoldi e Pilar Fogliati, arrivate con il loro Breve storia d’amore, film già molto dibattuto nonostante sia nelle sale da pochi giorni. La pellicola segna l’esordio alla regia della Rampoldi, penna raffinata del nostro cinema e vanta la presenza magnetica di Pilar Fogliati, attrice e regista, spirito ironico e disciplinato, che negli ultimi anni abbiamo visto muoversi con la stessa naturalezza tra teatro, tv, cinema e set che dirige lei stessa.
Il pubblico le aspettava: e loro non hanno deluso. “Arriva anche a Roma del lavoro bellissimo che fate qui al Ricciardi”, la bella conferma arriva subito nella dichiarazione della Rampoldi ad inizio dibattito, ha poi raccontato i suoi primi passi nel cinema ricordando, con un sorriso, il ruolo di «sesto assistente alla regia volontario» ne Le conseguenze dell’amore. Fogliati, dal canto suo, ha parlato della lunga traiettoria prima della notorietà, di quel video virale che l’ha fatta incontrare dal grande pubblico, dopo anni di teatro e studio. E lo ha raccontato alla sala con la dolcezza disarmante che la contraddistingue.
Il film evita accuratamente di farsi intrappolare nella categoria del “film sulle relazioni” uscendo da un terreno infestato di clichés. Breve storia d’amore non spiega, non consola, non redime. Guarda due coppie, una giovane, una adulta, e non offre manuali di sopravvivenza.
Due stagioni dell’amore, due modi di respirare. E su tutto, un gesto registico che non giudica mai. L’apertura, con Adriano Giannini (Rocco) impegnato nella surreale disciplina della boxe alternata agli scacchi, sembra già dichiarare che l’amore non è un’idea pura ma una dialettica continua: muscoli e strategie, impulsi, rinunce, mosse sbagliate. Più tardi, le formiche nel plexiglass, prigioniere del proprio cerchio, diventano un’immagine potente, quasi dolorosa, delle abitudini che ci tengono insieme e, qualche volta, ci soffocano.
Pilar Fogliati dà corpo a Lea, una donna che inciampa nella scoperta di un tradimento e reagisce con una gamma intera di emozioni: smarrimento, rabbia, comicità involontaria, lucidità improvvisa. È una performance febbrile, quasi rumorosa, che trova però un contrappunto perfetto nel silenzio calmo di Valeria Golino, Cecilia, psicoterapeuta matura che alla domanda “cosa faresti se tuo marito ti tradisse?” risponde con un sereno, catartico: «Nulla».
Il Ricciardi, con questa serata, dimostra che il cinema può ancora permettersi di non essere pedagogico. Può osservare senza aggiustare, e soprattutto può sottrarsi alla tentazione, molto italiana, di moralizzare tutto. Ed è forse per questo che, uscendo dalla sala, il pubblico non aveva l’aria di chi cerca risposte. Piuttosto quella di chi, per una sera, ha accettato di guardare le crepe senza chiedere che venissero stuccate.