Con il Decreto Lavoro (Decreto Legge del 4 maggio 2023, n. 48), il governo Meloni ha confermato l’abolizione del Reddito di Cittadinanza e introdotto il nuovo strumenti per i soggetti occupabili con età compresa tra 18 e 59 anni.
Il reddito di cittadinanza e’,dunque, al capolinea: quella di luglio sarà l’ultima ricarica per i beneficiari 2023 e da agosto gli occupabili fino a 60 anni senza figli piccoli o anziani in famiglia resteranno senza sussidio, in attesa di iscriversi dal 1° settembre al nuovo portale web del Governo.
Il sussidio resta soltanto per chi è seguito dai servizi sociali in quanto rientrante nelle fasce di popolazione che potenzialmente non possono trovare lavoro (disabili, minori, anziani, ecc.). Pertanto, il RdC resta fino a fine anno anche per i nuclei familiari con minorenni, persone con disabilità o con almeno sessant’anni.
Per questi nuclei, il RdC sarà erogato fino al 31 dicembre 2023, per poi essere sostituito dall’Assegno di Inclusione (AdI) dal 1° gennaio 2024.
Il nuovo strumento personale (che spetta dunque anche gli occupabili che rientrano nei nuclei familiari ammessi all’Assegno di Inclusione non inclusi nella scala di equivalenza), si chiama Supporto per la formazione e il lavoro e partirà a settembre 2023. Si tratta di un sussidio economico pari a 350 euro al mese, per un massimo di 12 mensilità.
I potenziali beneficiari devono avere determinati requisiti, anche di reddito.
La soglia ISEE massima è infatti quella di 6mila euro l’anno, ossia la soglia sotto la quale si è considerati in povertà assoluta. Inoltre, per poter ottenere il beneficio si dovrà partecipare a programmi di formazione e progetti di pubblica utilità.
Di fatto, rispetto agli attuali potenziali beneficiari che prendono il RdC, resteranno fuori circa 5000mila persone. Il sussidio è comunque individuale: significa che nella stessa famiglia possono prenderlo tutti i maggiorenni con i requisiti richiesti.
L‘Assegno di Inclusione entrerà in vigore il 1° gennaio 2024 sostituendo il Reddito di Cittadinanza ed offre un contributo economico per i nuclei familiari con almeno un componente in condizione di disabilità, minorenne o con almeno 60 anni di età, o “componenti in condizione di svantaggio, inseriti in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari”, congiuntamente ad un ISEE familiare fino a 9.360 euro annui (lo stesso del Rdc).
Il beneficio è inoltre condizionato alla sottoscrizione del patto di attivazione e all’adesione a un percorso personalizzato di inclusione sociale e lavorativa.
Il contributo economico sarà erogato dall’INPS tramite una nuova card elettronica, denominata Carta di Inclusione, per un periodo massimo di 18 mensilità rinnovabili di ulteriori 12 mesi.
L‘importo dell’assegno, che debutterà nel 2024, può arrivare fino a 6mila euro l’anno (500 al mese), più un contributo affitto di 3.360 euro l’anno, (280 al mese). Se il nucleo è costituito da tutte persone di almeno 67 anni o disabili gravi la cifra sale a 630 euro al mese più 150 euro di contributo per l’affitto. Per determinare gli importi reali bisogna però tenere conto anche della scala di equivalenza che si basa sulla composizione del nucleo familiare. Esattamente come avviene oggi con il reddito di cittadinanza.
L’assegno di inclusione è dunque nei fatti molto simile allo strumento che sostituisce. Con la differenza, non proprio trascurabile, che non prevede nessuna tutela per centinaia di migliaia di persone indigenti, ma “occupabili”.
La sostituzione del Reddito di Cittadinanza con l’Assegno all’Inclusione, una misura categoriale rivolta esclusivamente alle famiglie con minori, anziani o disabili, e il Supporto per la formazione e il lavoro, per le altre famiglie, costituisce una profonda e preoccupante novità rispetto al criterio di universalità selettiva che aveva caratterizzato le due precedenti misure nazionali di contrasto alla povertà, prima il Rei e poi il Rdc.
Secondo alcuni esperti del settore rischia di ricreare un forte elemento di debolezza nel nostro sistema di welfare. Viene infatti abbandonato il principio del reddito minimo (oggi vigente nella maggior parte dei paesi europei), il quale prevede che qualsiasi nucleo familiare che si trovi in condizione di povertà debba ricevere un sostegno minimo al reddito. La conseguente riduzione della platea degli aventi diritto che ne risulterebbe è infatti rilevante: si potrebbe determinare, secondo le prime stime, addirittura un sostanziale dimezzamento degli aventi diritto.
Il rischio di povertà resta più alto nel Mezzogiorno, che rimane l’area del Paese con la percentuale più alta di individui a rischio (40,6%, ) sulla base dei tre indicatori, ovvero rischio di povertà, grave deprivazione e bassa intensità di lavoro.
Secondo molti, la riforma del Governo sarebbe stata effettuata senza alcun confronto con le organizzazioni sociali che si occupano nel nostro Paese di povertà e ,per tale motivo, risalterebbe , in tutto l’impianto del provvedimento, l’applicazione di un principio selettivo: per la prima volta, rispetto alle misure precedenti che si sono susseguite dal 2013 ad oggi, si perde l’universalità del diritto e, con esso, la prospettiva di una vita dignitosa per tutti.
I poveri vengono così divisi in due categorie: gli occupabili, coloro presumibilmente in grado di essere inseriti nel mercato del lavoro e i non occupabili, definiti tali per condizioni di età e composizione del nucleo familiare. Quale sia la logica che muove la filosofia di questa scelta resta al momento incomprensibile. Pertanto oggi la povertà si divide in due categorie : da un lato i “meritevoli”, dall’altro i “non meritevoli”, senza che il metro di valutazione trovi pari criterio in altri Paesi europei.