Provate a immaginare come deve essere: siete un gruppo di attori, bravi, appassionati, vi siete calati completamente nel ruolo. Avete un compito non facile, quello di interpretare i Queen nel film che racconta la loro storia. E la prima cosa che viene girata è, in realtà, la più importante: il finale del film, il concerto del Live Aid, l’esibizione “definitiva” di Freddie Mercury, Brian May, Roger Taylor e John Deacon, quella della loro rinascita e del loro trionfo, vista in mondovisione da centinaia di milioni di persone. Venti minuti di set dal vivo, nel quale la band deve essere all’altezza del ruolo, suonare su un gigantesco palco, essere credibile, coinvolgere il pubblico che, in sala, vedrà l’esibizione conoscendo, in gran parte a memoria, l’originale.
Ecco, per Rami Malek, nei panni di Freddie Mercury, Gwylim Lee in quelli di Brian May, Ben Hardy dietro ai tamburi della batteria di Roger Taylor e Joseph Mazzello con il basso di John Deacon, questo è stato l’inizio dell’avventura di Bohemian Rhapsody, il biopic firmato Brian Singer che racconta l’avventura dei Queen dalla loro nascita nel 1970 fino, appunto, alla loro rinascita sul palco di Wembley nel 1985 e che arriva nelle sale italiane il 29 novembre . “È stata la prima cosa che abbiamo fatto, ma è stato un bene – dice Rami Malek – può sembrare strano, iniziare dalla fine e forse anche dalla cosa più difficile. L’abbiamo ripetuta finché non siamo arrivati ad avere la perfezione. Ci ha drenato tantissime energie. Siamo saliti sul palco iniziando da Bohemian Rhapsody, il giorno dopo Radio Ga Ga, poi Hammer to Fall e poi tutte per una settimana fino a We Are the Champions. Alla fine ci sentivamo sicuri, abbiamo capito di aver assimilato tutto e abbiamo chiesto di rifarle tutte una dopo l’altra. Hanno montato tre gru e altre macchine da presa, in più c’erano dei fan dei Queen a fare da comparse e abbiamo cominciato a cantare tutte le canzoni in sequenza come nella realtà e ci siamo resi conto del crescendo di energia, della carica che ti dà quel tipo di esperienza. Alla fine finisci quasi per sentirti sovrumano, poi vai nel backstage e svieni. Alla fine ci siamo stretti la mano, ci siamo guardati negli occhi, è stato il momento che ci ha uniti come band. È stata un’emozione fortissima”.
Bohemian Rhapsody racconta la storia della band dall’inizio, dalla sera in cui Freddie Mercury vide suonare dal vivo gli Smile e si offrì di diventare il loro cantante, fino alla grande esibizione al Live Aid nel 1985, una storia raccontata principalmente attraverso le vicende personali e artistiche di Mercury, con tutte le sue paure, i suoi limiti, i suoi difetti, ma anche con tutta la sua genialità, la grandezza, la forza. “Vestire i panni di Mercury non è stato facile – dice ancora Malek – In realtà è stato estremamente difficile. Non voglio dire che sia stato un peso, ma la natura mitica del personaggio, il fatto che abbia significato tanto per la gente che lo amava, che fosse quasi un dio dal punto di vista musicale, rendeva il compito davvero impossibile. Ma l’ho affrontato con passione, ho pensato che fosse importante rendere giustizia alla sua eredità, così mi sono immerso in quello che era Freddie Mercury, il che ha voluto dire anche fare un anno e mezzo di lezioni di canto, di piano, di lezioni per imparare a entrare nei suoi movimenti e parlare col suo accento. Ma alla fine quello che conta è che non è un’imitazione, io non sono Freddie Mercury, ma un attore che interpreta, al suo meglio, un ruolo per renderlo vero”.
Il film ha esordito con grande successo, raro per un biopic musicale, un successo meritato, perché Bohemian Rhapsody, pur non essendo un capolavoro, è un film molto ben costruito, ricco di musica ma non un musical, positivo ovviamente su tutta la storia della band ma credibile, attento, in grado anche di illuminare parti meno note e meno brillanti della personalità e della vita di Mercury: “Credo che sia la cosa più bella del film”, dice ancora Malek, “tutti quanti conoscono l’aspetto macho, esagerato, spettacolare, provocatorio di Freddie Mercury. Ma non credo che molti conoscessero la parte più intima e personale. Io ne sapevo assai poco, non conoscevo nemmeno il suo vero nome, Farouk Bulsara. E soprattutto la storia d’amore e di amicizia, che ha avuto una straordinaria centralità nella sua vita, con Mary Austin. Quando ho accettato di mettermi nei suoi panni, ho accettato di affrontare tante difficoltà, ma poi ho pensato a questo ragazzo nato a Zanzibar, che aveva frequentato le scuole in India per poi tornare a Zanzibar e trovare una rivoluzione che l’ha costretto ad andare a Londra. Ho messo da parte la rockstar per concentrarmi sull’essere umano alla ricerca dell’identità, in cui mi sono potuto identificare da straniero negli Stati Uniti. Mi sono concentrato su quegli elementi che avevamo in comune”.