di Iole Vaccaro
“Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo.” Affermava Einstein e come dargli torto? Ma un modo deve esserci per spezzare la catena di eventi a maglie strette, fatta di odio e violenza, che da secoli l’umanità ripete all’infinito. Eppure l’uomo di oggi è ancora convinto che la pace si possa raggiungere attraverso la guerra. Viviamo ormai in una società che si nutre di paradossi senza nemmeno accorgersene e questa cecità fa ancora più paura del terrorismo, perché annienta la speranza.
La prima considerazione utile allora è proprio questa: se le strategie vecchie, dell’occhio per occhio, dente per dente, analizzando il passato, mostrano di non aver funzionato nella ricerca di equilibrio e pace tra i popoli, allora bisogna cercare una soluzione nuova, ma prima ancora di cercarla fuori di noi, dobbiamo trovarla dentro. Se il concetto che la pace è opera di giustizia non penetra fin dentro le nostre ossa, continueremo a nuotare in un mare di fango e lì il terrorista di turno finirà soltanto l’opera di morte a cui noi stessi abbiamo dato inizio.
“La pace non è semplicemente assenza di guerra, ma opera della giustizia”ha affermato nel suo discorso il Papa a Seoul, il 14 agosto del 2014. Di certo però la giustizia di cui Bergoglio parlava non è quella sommaria, non è quella vendicativa e cieca ma quella sana dove a vincere sono tutti.
Cambiare sguardo è necessario: ma siamo sicuri che la rabbia che proviamo di fronte a tali attentati non sia in fondo già dentro di noi e trovi, in questi fatti, soltanto l’occasione per manifestarsi?
Questa domanda non vuole sminuire i fatti di Bruxelles, che restano gravissimi, ma richiama ad uno sguardo interiore. Fatti come questi dovrebbero suscitare pena, avvilimento, disperazione, pianto, tristezza. Anche odio, come fase normale dell’elaborazione di un lutto, nel caso dei familiari delle vittime, ma non per persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza. Se dovesse sembrare cinismo chiedetevi se questo odio non sia stato alimentato in noi, piano piano, a piccole dosi.
La seconda considerazione prende in esame l’esasperazione dei mass media e la corsa a pubblicare foto sempre più impressionanti, come una gara in cui si vinca qualcosa; pensate adesso alla strumentalizzazione politica già in atto dell’accaduto; pensate a come, nonostante l’allerta già massima in europa, tutto ciò sia avvenuto ugualmente.
Chiedetevi perché a partire dall’attentato alle Torri Gemelle fino ad oggi pare che l’occidente sia in scacco matto. Se è così allora non c’è guerra da fare, abbiamo già perso. Ma poi guerra tra chi?
Se si è fuori dalla paura e dalla manipolazione non ci si può sentire in guerra perché è ovvio che “l’unica mossa vincente è non giocare”, come dice il protagonista nel film Wargames, specie quando il gioco è politico e non a chiare le regole. Una guerra senza regole è un massacro che non può avere vincitori.
Non esistono vittime e carnefici, ma esistono carnefici che a loro volta sono vittime di altri carnefici e così via, fino a risalire all’originario archetipo che per primo ha innescato il processo a spirale discendente.
L’ultima considerazione è proprio sulla paura: da secoli i popoli vengono tenuti a bada con la paura. Essa è lo strumento di coercizione più forte che esista. La paura blocca le vite, offusca il giudizio, la mente e fa divenire strumento nelle mani di chiunque. A chi fa comodo che tutti vivano nel terrore?
Come si svolta e si risale da questo abisso: dubitando, ponendosi domande e attendendo le risposte che sempre arrivano, ma ponendosi sempre fuori dai fatti e con lo sguardo da spettatore possibilmente neutro, indagatore di se stesso, in primis, e poi dei fatti. Chi conosce se stesso conosce il mondo intero, in caso contrario siamo destinati ad un caos senza fine e senza vincitori.