Il voto referendario e’ il voto dei voti

Per quale ragione l’8 e il 9 giugno non possiamo rinunciare ad andare a votare? Non semplicemente e solo perché è un diritto. Ma perché e’ anche un dovere che bisogna adempiere per dare sostanza ad un istituto, uno dei pochi rimasti, che declina la pratica di democrazia del popolo sovrano. I risultati saranno validi solo se andrà alle urne il 50% più uno degli aventi diritto. E in questi tempi bui in cui lo Stato assume oramai una funzione servente del mercato e delle potenti lobby finanziarie, il voto referendario resta dunque un esercizio di democrazia da difendere, uno strumento di partecipazione popolare a cui non rinunciare, dando un segnale importante alle autocrazie politiche di voler prendere parola su materie importanti che toccano tutti.

Secondo Sbilanciamoci.info negli ultimi venti anni si sono persi due miliardi di ore lavorate, mentre i lavoratori a termine sono aumentati di un milione rispetto a vent’anni fa. Oltre il 28% dei giovani sotto i 35 anni ha contratti temporanei. Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è tra i più alti d’Europa: 22,8% nel 2023, con punte che sfiorano il 40% al sud. Ancora più preoccupante e’ la rilevanza assunta da un segmento di popolazione che pur lavorando percepisce un reddito inferiore alla soglia di povertà, i cosiddetti working poor. La scarsa qualità del lavoro tradotta in basse retribuzioni, scarse garanzie contributive, irregolarità delle carriere, ecc., determina un rischio di povertà individuale significativo per i lavoratori e aumenta il rischio di povertà dell’intero nucleo familiare.

E veniamo in poche battute a indicare cosa chiedono i quesiti referendari abrogativi, quattro promossi dalla CGIL e il quinto da +Europa.

Il primo quesito chiede la cancellazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti introdotto nel 2015 con il Jobs act del governo Renzi, applicata a chi è stato assunto dal 7 marzo 2015 in poi. Nelle imprese con più di 15 dipendenti, in diversi casi di licenziamento illegittimo non c’è il reintegro nel posto di lavoro previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 ma un indennizzo economico che può arrivare fino ad un massimo di 36 mesi. L’obiettivo di chi ha promosso il referendum è di abrogare la norma e ’impedire licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo’.

Il secondo quesito dei quattro referendum sul lavoro chiede più tutele per le lavoratrici e i lavoratori delle piccole imprese. In particolare riguarda la cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti nelle imprese con meno di 16 dipendenti: qui in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento, anche qualora un giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto di lavoro.

Il terzo dei quattro quesiti referendari sul lavoro riguarda ancora il Jobs act, ma anche l’ultimo intervento del governo Meloni puntando all’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine. Il Dlgs n. 81/2015 oggi consente di assumere a tempo determinato, entro il termine massimo di durata del rapporto di 12 mesi, senza indicare la cosiddetta “causale”. Se prevalgono i “sì” sarà possibile assumere a termine, anche nel primo anno, solo nei casi previsti dai contratti collettivi negoziati tra imprese e rappresentanze sindacali o loro associazioni e nei casi di sostituzione di altri lavoratori. In caso di contestazione, il giudice dovrà verificare l’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro per l’assunzione a termine e non a tempo indeterminato.

Il quarto quesito referendario interviene in materia di salute e sicurezza sul lavoro e riguarda il cosiddetto Testo unico del 2008. Si chiede di modificare le norme attuali, che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. La CGIL dichiara:”Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità all’imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro”.

Il quinto quesito propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale richiesto agli stranieri extracomunitari per richiedere la cittadinanza italiana. Secondo la legge del 1992 in vigore, un adulto straniero maggiorenne, cittadino di un Paese che non fa parte dell’Unione Europea, deve risiedere legalmente 10 anni in Italia per poter chiedere la cittadinanza italiana. Abbreviare i tempi a cinque anni, senza toccare gli altri criteri, come il reddito e la conoscenza della lingua, semplificherebbe un percorso oggi ostacolato dalla burocrazia avvicinando l’Italia agli standard di altri Paesi europei.

Chi tifa per il non raggiungimento del quorum è dalla parte di chi ha interesse a mantenere le disuguaglianze, dalla parte di chi si arricchisce con il precariato. Questa rassegnazione organizzata e propagandata non è solo disillusione. E’ il tentativo pianificato di sabotare un segnale, minimo ma un segnale, che venga dal basso a favore di una politica dei redditi, contro i bassi salari e la segregazione di poche e facilmente individuabili categorie (giovani, donne e stranieri) in posizioni lavorative poco retribuite o in ogni caso insufficienti a garantire una vita dignitosa all’intero nucleo familiare. Non bastano delle elezioni per qualificare un assetto di potere come democratico. L’8 e il 9 giugno non si vota per qualcuno. Si vota per sé stessi. L’invito è a interrogarsi sul perché delle affermazioni che provengono dalle oligarchie partitocratiche e dai loro vassalli. Non si può rinunciare ad approfondire e informarsi per affermare la propria personale capacità di analisi e critica.