Il Novecento delle donne/Sibilla Aleramo, una donna in cerca di sé stessa

A cura di Pietro Salvatore Reina

Con questo secondo articolo su Sibilla Aleramo, inauguriamo la rubrica “Il Novecento delle donne” a cura del prof. Pietro Salvatore Reina. Il prossimo numero sarà incentrato su Elsa Morante.

Protagonista delle battaglie femministe fra Ottocento e Novecento è Sibilla Aleramo (pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta Rina 1876-1960), una donna continuamente in cerca di sé stessa e del proprio ruolo nella società, che in nome di tale ricerca compie scelte «nuove», per i suoi tempi.
Una vita di una donna articolatissima e piena di snodi. Una donna che rinuncia a tutto, tranne rinunciare a sé stessa. Una donna nella quale vita e letteratura sono «due cose indissolubilmente legate» come sostiene lo scrittore e critico letterario Giacomo Debenedetti (1901-1967).
Figlia di Ambrogio Faccio, professore di Scienze, e di Ernesta Cottino, casalinga, è la maggiore di quattro fratelli. Nasce ad Alessandria il 14 agosto 1876. Vive a Milano fino all’età di 12 anni, quando interrompe gli studi per il trasferimento della famiglia a Civitanova Marche, dove al padre viene offerta la direzione di una fabbrica. Il padre spinge Rina a lavorare come contabile nello stabilimento.
Nel settembre del 1890 la madre, sofferente da tempo di depressione, tenta il suicidio gettandosi dal balcone di casa. Guarita dalle ferite della caduta ma non da quelle interiori viene ricoverata nel manicomio di Macerata dove muore nel 1917:
Una donna
Nel febbraio del 1892, a quindici anni, Rina è violentata da un impiegato della fabbrica, Ulderico Pierangeli, che il 21 gennaio 1893 sposa in un matrimonio riparatore (la prima donna a rifiutare pubblicamente il “matrimonio riparatore” fu la diciasettenne siciliana Franca Viola, nei primi giorni del gennaio 1966; il “matrimonio riparatore” viene cancellato, insieme al delitto d’onore, dalla legge 442 del 5 agosto 1981)
Dopo due anni, nel 1895, nasce il figlio Walter, un figlio amato, ma che poi abbandonerà quando decide di rompere il matrimonio.
Nel 1899 con il marito e il figlio si trasferiscono a Milano, dove Rina era vissuta da bambina. Scrive su varie riviste e tiene rubriche. Nel 1900 il marito vuole tornare a Civitanova Marche e per lei questo è troppo. Dopo un tentativo di suicidio, forse indotto dal marito, decide che è arrivato il momento di liberarsi di un matrimonio «non riuscito». Nel 1902 abbandona il marito e anche il figlio; farà il tentativo di averlo con sé ma inutilmente. Lo rivedrà solo nel 1933. Una scelta difficile da capire che racconta molto, però, della sua ricerca della libertà e dell’emancipazione anche in modo così violento.
“Un grido, indi parecchi altri, poi un gran sussurro nella piazza sottostante mi fece trasalire. Non mi ero ancora avvicinata alla finestra, che il rumore si portò ai piedi dello scalone di casa, facendomi correre verso la porta, seguita dalla donna e dai fratelli… Ed io vidi il corpo di mia madre portato da due uomini, un corpo bianco seminudo su cui una mano aveva
lanciato un cencio che penzolava, come penzolavano le braccia, i piedi, i capelli” pag. 33).
“fui sorpresa da un abbraccio insolito, brutale: due mani tremanti frugavano le mie vesti, arrovesciavano il mio corpo fin quasi a coricarlo attraverso uno sgabello, mentre istintivamente si divincolava. Soffocavo e diedi un gemito ch’era per finire in urlo, quando l’uomo, premendomi la bocca, mi respinse lontano…” (Una donna, pp. 45-46).
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Si trasferisce a Roma dove conosce il poeta romanziere Giovanni Cena (1870-1917), direttore della Nuova Antologia, che sceglie per lei lo pseudonimo di Sibilla Aleramo (dalla «terra d’Aleramo» della poesia carducciana Piemonte).
Su le dentate scintillanti vette salta il camoscio, tuona la valanga da’ ghiacci immani rotolando per le. selve croscianti:
[…]
Cuneo possente e pazïente, e al vago declivio il dolce Mondoví ridente, e l’esultante di castella e vigne suol d’Aleramo;
Nel 1906, a trent’anni, pubblica Una donna, un romanzo d’esordio, autobiografico apertamente scandaloso per l’epoca. Confessava, infatti, nei minimi particolari come la protagonista, mortificata dalle miserie provinciali, familiari e matrimoniali cui si era sottoposta per ben quindici anni, si fosse risolta ad abbandonare marito e figlioletto per cercare una vita propria e la propria libertà. Nel romanzo rivendica una parità fra uomini e donne che la stessa autrice osa definire come “femminista” (ricordiamo che nell’Italia di allora non votavano ancora nemmeno tutti gli uomini, nel 1911 c’era un suffragio universale maschile ristretto). Un romanzo che piacque a Luigi Pirandello, Alfredo Panzini, Arturo Graf e all’estero fu apprezzato da Anatole France, Stefan Zweig.
Un fatto di cronaca avvenuto nel capoluogo della provincia, m’indusse irresistibilmente a scrivere un articoletto e a mandarlo ad un giornale di Roma, che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola femminismo. E quando la vidi così, stampata, la parola dall’aspro suono mi parve d’un tratto acquistare intera la sua significazione, designarmi veramente un ideale nuovo. (da Una donna, cap. XIII, p. 98)
È la prima volta che compare il termine “femminismo”. Luigi Pirandello commenta così Una donna
«Pochi romanzi moderni io ho letti che racchiudano come questo un dramma così grave e profondo nella sua semplicità e lo rappresentino con pari arte, in una forma così nobile e schietta, con tanta misura e con tanta potenza»
Una donna è un romanzo che la rende nota al grande pubblico. L’evoluzione del suo pensiero la fa transitare al socialismo e insieme con Giovanni Cena e ad altri amici si adopera fattivamente per la bonifica dell’Agro Pontino e per l’assistenza ai “guitti”, i poverissimi braccianti dell’agro romano sfruttati dai latifondisti. In seguito, Sibilla si occuperà anche dei problemi dell’infanzia povera e bisognosa nel quartiere Testaccio, organizzando anche corsi di scuola serali e festivi. L’impegno sociale di questi primi anni del secolo riaffiorerà nella metà degli anni Quaranta quando aderirà al Partito Comunista Italiano.

L’ultima missione umanitaria con Giovanni Cena è il viaggio nelle terre terremotate della Calabria e della Sicilia nel dicembre 1908.
In quest’anno Sibilla conosce e si innamora di Lina Poletti, soprannominata “la favola”, che lavora alla Biblioteca Classense di Ravenna.
Nel 1909 Sibilla incontra un giovanissimo poeta, Nazareno Caldarelli, che si firma Vincenzo Cardarelli. Nel 1910 interrompe le relazioni sia con Cena che con la Poletti, che diventa l’amante di Eleonora Duse.
Nel 1911 va a vivere con Cardarelli a Firenze. All’epoca collabora a La tribuna, a La Voce di cui è direttore Giovanni Papini, che per un breve periodo diventa un suo amante.
Si trasferisce a Sorrento dove conta di scrivere il secondo tomo della sua autobiografia, Il passaggio – dove racconta anche la relazione con Dino Campana – che tuttavia completa solo nel 1919. Un romanzo che lei stessa definisce «un romanzo di ricerca personale». Viene in contatto con Benedetto Croce che senza mezzi termini le fa capire di non apprezzare troppo la sua prosa. Nei primi anni Dieci del Novecento, a Milano, conosce e frequenta Umberto Boccioni che la porta nel movimento futurista presieduto da Marinetti. Poco dopo Sibilla torna a Parigi dove frequenta Apollinaire e i migliori salotti letterari dell’epoca. A Parigi, in quegli anni, soggiorna anche il poeta-vate Gabriele D’Annunzio.
Nell’estate del 1914 intrattiene relazioni intellettuali e amorose con il pittore Michele Cascella, Clemente Rebora e Giovanni Boine.
Nel 1916 Sibilla ha una breve e folle relazione con Dino Campana, che nel 1914 pubblica I canti orfici:
«amai perdutamente Campana per non lasciarlo solo nella sua follia…».
Sibilla Aleramo amava il talento, si infiammava per lo più per poeti scrittori, artisti, prendeva ciò che voleva, non chiedeva altro che «istanti di passione» anche quando facevano male e bruciavano di follia. Fu consapevole di una diversità che alimentò sempre come un fuoco al crepuscolo.
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Nel 1921 scrive la pièce teatrale Endimione, che è anche una riflessione poetica, che dedica a D’Annunzio. Viene rappresentata dapprima a Parigi, dove ottiene un larvato successo, e successivamente nel 1924, al teatro Carignano di Torino e negli anni Quaranta a Roma.
L’avvento del fascismo segna un momento critico per Sibilla: il nuovo regime le fa orrore. Ha una relazione con Tito Zaniboni, deputato socialista che progetta l’uccisione del Duce (4 novembre 1925). Sibilla che si trova a Firenze viene arrestata con l’accusa di complicità e imprigionata; dopo una notte in cella viene rilasciata ma per lei, vicina agli ambienti antifascisti, è la fine la carriera giornalistica. La Aleramo si vede precluse molte attività lavorative comprese le collaborazioni giornalistiche dalle quali ricava sostentamento. Nel 1925 firma il manifesto antifascista di Benedetto Croce, che viene reso pubblico il 1° maggio 1925, in coerenza con la sua simpatia politica per il movimento gobettiano.
Ma da lì a poco matura una nuova svolta, un’altra scelta sorprendente: nel dicembre 1928 scrive a Mussolini per chiedere un’udienza, che ottiene in poco tempo. Nel chiedere di essere ricevuta la Aleramo scrive: «Perché un poeta accetti nel suo spirito un dittatore bisogna che lo abbia davanti a sé, una volta per sé soltanto, e lo fissi negli occhi». L’incontro avviene il 18 gennaio 1929 a Palazzo Chigi. Al Duce la scrittrice assicura che sarà fedele al nuovo regime, pronta, dunque, a usare la sua penna per tesserne le lodi. In cambio della fedeltà e per far fronte alle difficoltà economiche la Aleramo riceverà un sussidio mensile di 20.000 lire
Nel 1933 si scrive all’Associazione Nazionale Fascista Donne Artiste e Laureate. Nel 1943, però, si rifiuta di trasferirsi a Salò come ordinato dal Ministero della Cultura definendo quell’ultima pagina del fascismo come “vergognoso” quell’estremo tentativo di salvare il fascismo.
Nel 1936 una nuova passione amorosa “incendia” il suo cuore: si innamora ricambiata di Franco Matacotta, uno studente di quarant’anni più giovane di lei a cui restò legata per dieci anni, fino alla fine della Seconda guerra mondiale:
«Odore dei tuoi vent’anni che su te respiro ben desta e l’aurora t’è intorno, sei tu stesso aurora»
scrisse per lui.
Matura un’altra scelta politica che nel 1946 la porta a chiedere la tessera del PCI. Il 3 gennaio 1946 invia una lettera alla direzione del PCI chiedendo di essere iscritta nelle file del partito A settant’anni la Aleramo vuole mettere ancora la sua vita al servizio di un impegno politico. Da quel momento la scrittrice lavora attivamente per il partito scrivendo articoli per l’Unità e tenendo conferenze in tutta Italia. La guerra, tra l’altro, l’aveva ridotta in povertà. Nel 1941 1941 accetta l’ospitalità dell’amica Alba de Céspedes (1911-1997) nella villa “Gli Oleandri” a Forte dei Marmi.
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Nel 1945 frequenta la nuova intellighenzia che ha sostituito quella prebellica: Cesare Pavese, Luchino Visconti, Natalia Levi Ginzburg, Cesare Zavattini, Alberto Moravia ed Elsa Morante, Palmiro Togliatti, Concetto Marchesi, Camilla Ravera, Ranuccio Bianchi Bandinelli (il custode degli inediti e del suo testamento). Nel 1948 partecipa a Breslavia al Congresso Mondiale degli Intellettuali per la Pace.
Nel dicembre del 1959 Sibilla Aleramo viene ricoverata in clinica dove muore il 13 gennaio 1960. Nonostante il successo del primo libro, tradotto in tutt’Europa e negli Stati Uniti, muore in povertà, negli ultimi conduceva una vita quasi da nomade.
Le rendono omaggio sui giornali Salvatore Quasimodo e Alberto Moravia. Il necrologio su Il Corriere della Sera è di Eugenio Montale che ne delinea il cammino biografico e letterario della scrittrice con particolare occhio di riguardo per le poesie