I cinema lo hanno riportato nella categoria dei film “da non perdere”. Mi dispiace ma molti di noi se lo sarebbero, volentieri, perso. Un film che non decolla, ambientato in una città quasi irreale, astratta, fatta di baretti gay e camere di motel. Nel primo tempo, la routine è sempre quella, Daniel Craig nei panni di Lee, un omosessuale trasandato di mezza età, che vive ciò che è, ma allo stesso tempo, odia il suo “io”; trascorre le sue giornate a bere a dismisura, a drogarsi e ad approcciare giovani con cui avere un rapporto sessuale. Ecco che un bel giorno incrocia lo sguardo magnetico di un ragazzo, per Lee diventa un’ossessione da rincorrere. Questo giovane, Gene Allerton, ben curato, appare, sin dal primo istante, misterioso poiché, per buona parte del film, non si comprende se sia gay o un qualunque avventuriero in cerca di lussuria e soprattutto di qualcuno che lo mantenga. I due protagonisti vivono svariati rapporti sessuali, anche se il vero amore e desiderio appassionato lo ritroviamo solo in Lee, mentre nel giovane Gene, dopo il momento di intimità condiviso, non rimane altro che indifferenza e una sensazione di crescente fastidio verso quell’uomo. Durante l’intervallo si può essere speranzosi che la storia prenda una qualche piega, che si sviluppi…Aspettative deluse, il secondo tempo non è altro che un climax di sogni/incubi di Lee che, allo spettatore, risultano incomprensibili oltre che disturbanti. Ma veniamo all’aspetto più assurdo della storia: Lee è talmente preso da Allerton che, per scoprire davvero chi è e quali siano i suoi sentimenti, decide di portarlo con sé nella giungla alla ricerca di una droga, lo yagé, avente il potere della telepatia. Qui non ci sono altro che scene infinitamente lunghe, noiose, contorte di allucinazioni inquietanti e nauseanti: vediamo i due protagonisti che, dopo aver consumato la droga in questione, vomitano entrambi i loro cuori e inizia una “danza” di fusione dei loro corpi, l’uno diventa estensione dell’altro fino a sparire nell’altro. A questo punto direi che, chi è rimasto ancora sveglio, dopo oltre due ore di film, si chiede: cosa vuole comunicare il regista? Ma perchè non sono rimasto a casa? La verità, ossia il significato del film che Guadagnino tenta, senza buon esito, di celare, è molto più semplice e banale ma, ovviamente, non sarebbe durato tante ore e nè avrebbe fatto parlare di sé. Questo film è la storia di un uomo qualunque che perde la testa, o peggio, il suo essere, dietro a un ragazzo più giovane, un amore impossibile perché non ricambiato, difatti, dopo l’esperienza trascendentale vissuta dai due uomini, Gene confessa a Lee di non essere gay, cosa già intuita nel primo tempo. Dunque una storia qualsiasi, che può capitare a chiunque, senza alcun bisogno di calarla in una realtà “fittizia”. Si dice che sia Città del Messico, ma poco vediamo della città, i personaggi si muovono proprio come nella rappresentazione del set cinematografico, senza essere calati in altra ambientazione. Lo spettatore si trova claustrofobicamente intrappolato in una dimensione onirica. Nessuno dei protagonisti ha una routine normale, di che campano non si sa, non li vediamo andare a lavoro, svolgere altre attività, se non quella di bere, rimorchiare, drogarsi o fumare. Sarebbe opportuno che Guadagnino tornasse al genere di film come “Chiamami con il tuo nome” o “Challenger”. Un regista con un grande potenziale sfumato in una pellicola stancante e di cui si fa fatica ad apprezzare il senso.