Per il consueto numero domenicale di “Spiccioli di spiritualità”, rubrica diretta dal prof. P. Vitale, Michele Pugliese ci parla di San Giuseppe
Dopo il culto alla Beata Vergine Maria, il più grande santo venerato dalla Chiesa cattolica è il suo sposo San Giuseppe. Eppure le notizie ufficiali su di lui sono abbastanza scarse, mentre abbondano quelle della letteratura apocrifa, in particolare quelle riferite dal Protovangelo di Giacomo. Anche il culto tra i cristiani è piuttosto tardivo: comincia a Nazareth intorno al 670, poi portato in Occidente dove non incontrò eccessivo entusiasmo se è vero che la prima chiesa a lui dedicata risale al 1129, a Bologna. Fu solo nei secoli XIV e XV che la devozione ebbe un notevole sviluppo ad opera dei Francescani e dei Carmelitani.
Nella Sacra Scrittura l’evangelista Marco non lo cita mai, mentre la sua storia è riportata dai vangeli di Matteo e di Luca nei primi due capitoli di ognuno (i cosiddetti Vangeli dell’Infanzia) che lo descrivono come il padre legale di Gesù e sposo di Marià.
Per quanto riguarda la sua attività, Matteo lo definisce col termine greco tècton, che noi traduciamo con ‘falegname’, e così viene descritto nell’iconografia e anche nei film, dove lo si vede intento a costruire tavolini e sedie (tra l’altro poco usate a quei tempi in Oriente), ma sarebbe più corretto definirlo ‘carpentiere’, che corrisponde al latino faber, ovvero un artigiano che lavora il legno o la pietra. In definitiva il lavoro di Giuseppe può spaziare dal carraio, al fabbricante di attrezzi per l’agricoltura come gli aratri e le falci, fino al carpentiere vero e proprio che provvede alle strutture del legno per l’edilizia, attività questa assai fiorente nella regione della Galilea a quel tempo, a causa della costruzione di nuove città. Per questa sua attività, dove il lavoro non mancava, la condizione economica della famiglia era dignitosa, per cui bisogna sfatare il mito del Gesù ‘povero’. La nascita di Gesù in una stalla-grotta è dovuta a fattori contingenti, tanto è vero che prima di trovare l’alloggio di fortuna, Giuseppe e Maria cercarono un albergo, e dunque avevano i soldi per pagarlo. Inoltre, il fatto che potevano recarsi ogni anno in pellegrinaggio a Gerusalemme denota una certa agiatezza.
È il vangelo di Matteo che pone particolare attenzione sulla figura dello sposo di Maria. Infatti il primo evangelista ce lo descrive come un uomo ‘giusto’ che, di fronte all’inattesa gravidanza della promessa sposa, non se la sente di ripudiarla, come avrebbero voluto le leggi del tempo, e dunque decide dapprima di ‘licenziarla in segreto’ e poi, avvertito in sogno da un angelo, accetta di prendere con sé Maria accogliendo pienamente la volontà divina. L’adesione a questa responsabilità appare attraverso il fatto che è Giuseppe – secondo il volere dell’angelo – a dare il nome Gesù al figlio generato da Maria. L’atto di dare il nome, a quel tempo, non significava semplicemente sceglierlo tra quelli più aderenti alle mode del tempo, come di solito facciamo noi oggi, ma significava conferire al bambino la sua identità sociale e, in qualche modo, il suo compito da svolgere nella società. È noto infatti che il nome Gesù, nella lingua del tempo, significa ‘Dio salva’, che noi poi abbiamo espresso con ‘Salvatore’, nome comune tra i cristiani, che non hanno mai voluto, per un senso di rispetto e di pudore, chiamare i loro bambini con lo stesso nome ‘Gesù’.
Dai testi di Matteo emerge il ritratto di un Giuseppe uomo di fede che compie la volontà di Dio, come quando, successivamente alla nascita del bambino, esegue l’ordine angelico, sempre dato in sogno (i sogni sono nell’antichità il veicolo di trasmissione dalla volontà delle divinità), di riparare in Egitto per sfuggire alla furia devastatrice di Erode. E qui emerge la figura del Santo come padre di Gesù non nell’aspetto biologico, ma in quello di colui che custodisce il bambino, che si prende cura della sua famiglia, e la protegge dalle avversità.
La presenza di Giuseppe accanto a Maria, dunque, suggerisce la realtà di una coppia che si vuole bene, tutta protesa alla costruzione di una famiglia al cui centro sta la ricerca della volontà di Dio e l’obbedienza alla sua legge. Giuseppe è vero capofamiglia, e non una figura di contorno dei grandiosi avvenimenti che accadono. Per questo Luca, l’altro evangelista che parla di Giuseppe, non esita a designare per due volte Giuseppe come ‘padre di Gesù’.
Dopo gli avvenimenti straordinari dell’infanzia, e il ritorno a Nazareth scampato il pericolo di Erode, la narrazione evangelica ci dice che Gesù cresceva nella sottomissione ai suoi genitori. Qui dunque entra nell’età adulta ricevendo un’educazione nella quale il contributo di Giuseppe deve essere stato indubbiamente molto rilevante. Innanzitutto trasmette a Gesù le conoscenze del suo mestiere, come si usava fare a quei tempi, e poi lo introduce nella conoscenza della Torah (Legge), perché nel giudaismo – lo si fa ancora oggi tra gli ebrei osservanti – l’educazione religiosa dei figli era affidata alla figura paterna. Quindi Giuseppe, come gli altri padri di famiglia, deve aver condotto Gesù nella sinagoga, dove avveniva anche una istruzione di base, facendogli acquisire quelle abitudini religiose tipiche di un ebreo osservante.
Sempre a Nazareth, a un cero punto la figura di Giuseppe scompare, e infatti non appare più durante la predicazione di Gesù. Da ciò la tradizione deduce una morte di Giuseppe circondata dalla presenza e dall’affetto dei suoi. Per questo motivo egli diventa anche la figura spirituale del protettore di coloro che affrontano il trapasso della vita con tutti i conforti della fede. Giuseppe, dunque, uomo di fede che ci accompagna nel ‘seno di Abramo’, come dice la Bibbia con un’espressione molto delicata, lui che ne era stato un suo discendente.