Tra VENEZIANA e MY MARKET, la vita è sempre in “Corso”

Tra VENEZIANA e MY MARKET, la vita è sempre in “Corso”

A cura di Iole Vaccaro
Siamo verso la fine degli anni ’70. Corso Trieste è spettatore di una generazione di giovani ribelli, molto politicizzati, che vogliono cambiare la società.
Poi la società ha cambiato quei giovani e li ha sparpagliati in giro per il mondo a fare qualcosa di completamente diverso: costruire carriere, formare famiglie e in qualche caso provare a rifarsi una vita dopo un arresto o una forte esperienza di lotta.
Quando ho letto che il bar Veneziana avrebbe chiuso i battenti ho compreso che un epoca era davvero finita e che andava definitivamente archiviata.
Mi sono ricordata di quando il bar Veneziana e lo “store” (come si dice ora) My Market erano luoghi di raccolta di diverse fazioni politiche, di quando attraversare la strada era considerato un atto di aggressione (io attraversavo ma non mi è mai successo nulla). Da una parte la sinistra, dall’altra la destra; si era decisamente radicali.
Gruppi di opposte ideologie percorrevano le famose “vasche” senza mai incontrarsi e se capitava di farlo si finiva in uno scontro.
Le scuole superiori erano sedi di grande fermento e le fazioni più estremistiche ne combinavano di tutti i colori, mentre le forze dell’ordine, dato il clima, erano molto presenti, perfino in borghese, infiltrati nelle manifestazioni e nelle occupazioni d’Istituto.
Nel ricordare tutto questo, mi scatta una sorta di tenerezza ma anche di nostalgia per quell’impegno che ora tra i giovani non vedo più.
Sia chiaro, ho sempre condannato e condanno la violenza di ogni genere ma forse tra gli estremismi di ieri e gli “estremismi” di oggi esiste quella benedetta via di mezzo che si chiama responsabilità collettiva.
Non è facile, lo so, ma forse è indispensabile in questa epoca di terremoti interiori ed esteriori che non finiscono mai, che accadimenti emotivamente forti ci invitino a scrollarci un po’ di polvere di dosso.
Viene tristezza, un po’ di rabbia, malinconia; ad una certa età si ha la necessità di fissare i ricordi belli e adrenalinici dell’adolescenza.
La memoria è sacra, certo, come le radici, ma, l’ho gia detto, in un epoca di cambiamenti radicali e di risvegli sociali necessari, dobbiamo imparare a salutare ciò che ha finito il suo tempo, lasciando insolute, e spesso non del tutto comprensibili, le ragioni per cui tutto questo accade.
Concordo con chi da la colpa alla crisi economica e all’isola pedonale che impedisce al traffico di fluire, togliendo opportunità alle attività commerciali.
Ma se ci fosse di più? Se ci fosse dietro anche una moda, acquisita non si sa come ne quando, che è meglio frequentare locali dove c’è fila fuori? Se fosse che quella fila è più importante dello stesso locale perché in fondo, l’uno vale l’altro? Se fosse che l’importante, il sabato sera, sia l’essere stati in una fila a caso e non in quel preciso locale?
Io stessa non vado in locali deserti, devo ammetterlo, ma non vado nemmeno in quelli dove passi più tempo fuori che dentro.
Poi le mode passano e i locali chiudono.
Di sicuro c’è dell’altro, come i soldi investiti dai commercianti di Corso Trieste per i dehors, soldi andati poi persi, sappiamo il perché; di sicuro gli aspetti da valutare sono molti come sempre è; di sicuro la mia stima e ammirazione va al Sig. Garbo per la sua lunga attività e per essere stato, con il suo bar, un luogo estremamente vivo e determinante di questa città.
Ciò su cui però voglio riflettere è che c’è differenza tra fare memoria del passato lasciandolo poi andare e farne un “memoriale” da tenere stretto a se e che pesa come una zavorra sulle spalle.
Un “memoriale” attinge ai ricordi del passato per riportarli qui ed ora, per tenerli vivi, perché l’inconscio personale e collettivo preferisce la comodità di un fermo immagine alla fatica di andare avanti.
La memoria, al contrario, non rievoca, perché ha gia collocato nel suo giusto cassetto i ricordi, accanto agli altri, come in uno schedario e nel frattempo si guarda intorno per vedere cosa c’è d’interessante, quale seme va coltivato e quale lasciato perdere.
In questa differenza si giocano tutti i possibili futuri.
“Futuri”, si certo, al plurale, perché nemmeno conviene guardare troppo lontano e in un sola direzione, altrimenti le aspettative ci deluderebbero. Ogni percorso storico, infatti, non è mai lineare ma fatto di opportune deviazioni in itinere, secondo necessità.
Lasciar andare ciò che ha finito il suo corso è perciò condizione necessaria affinchè arrivi altro, in poche parole: se non chiudi una porta, non se ne apre un’altra perché il nuovo ha bisogno di trovare uno spazio gia pronto.
Velocemente i capisaldi di un modo di essere e di fare stanno scomparendo, invitandoci a passare oltre, a cambiare radicalmente mentalità. Forse non ci siamo accorti di essere tutti cambiati o forse non vogliamo accettarlo ma è il momento di spiccare il volo, senza le zavorre antiche, resi leggeri dalla fiducia che quando le cose cambiano non è mai “contro” ma a “favore” di tutti.
Smuoviamo le macerie interiori, seminiamoci altro, chiudiamo col passato e allarghiamo gli orizzonti; sogniamo, ma di quei sogni ad occhi apertissimi che sanno tenere conto dei vecchi errori e non hanno paura di farne dei nuovi, perché è così che si fa esperienza.
Le certezze sono un lusso che nessuno può permettersi più, e in fondo non ne abbiamo bisogno.
Oggi c’è bisogno di “eroi senza tempo”, di “artisti del presente”, di “costruttori ciechi” che iniziano avventure fregandosene del fatto che forse non le vedranno terminate ma ci credono fortemente.
C’è bisogno di battere strade incolte, aprendosi varchi tra le sterpaglie; c’è bisogno di reinventare se stessi, senza il timore di perdere credibilità, che talvolta è quella certa “fama” per cui nessuno vede più cosa fai veramente e ti giustifica a priori, lasciando correre ogni cosa.