Per il consueto numero domenicale della rubrica “Spiccioli di spiritualità”, diretta dal prof. Pasquale Vitale, il prof. Michele Pugliese ci parla dei Dervisci
Esistono i monaci nell’Islam? Si può pregare con una danza? Le due domande sembrano apparentemente molto distanti tra loro. Eppure trovano una risposta nei Dervisci (in arabo lett. ‘monaco mendicante’), i discepoli di alcune confraternite islamiche che, per il loro difficile cammino di ascesi, sono chiamati a distaccarsi nell’animo dalle passioni mondane e, per conseguenza, dai beni e dalle lusinghe del mondo, così come del resto fanno anche i monaci cristiani. Con il nome di dervisci sono chiamate molte generiche confraternite islamiche sufi, anche se tendenzialmente ci si riferisce a quella fondata nel XIII secolo da Jalal ad-din Rumi, poeta e sufi, meglio conosciuta in Occidente come la confraternita dei Dervisci rotanti. La caratteristica dell’ordine è di pregare il proprio amore per Allah con la musica e la danza, in un rituale che ha il nome di ‘Samà’, che in arabo significa ‘ascolto’. E infatti originariamente era una pratica rituale di ascolto della lettura del Corano, diffusasi nei circoli sufi di Baghdad a partire dall’IX secolo. Ben presto si affiancò a quella del testo sacro, la lettura di componimenti, accompagnati da specifici repertori musicali, connessi con particolari strumenti e alla danza. Questa piano piano divenne un movimento vorticoso di gruppo, che rappresenta ancora oggi un viaggio mistico di ascesa spirituale. Girando su se stesso il seguace del gruppo ascende verso l’amore assoluto. Dopo l’ascesi, si ritorna nel mondo comune, per comunicare la propria esperienza, concludendo la danza.
Molti dervisci furono ministri dei sultani, e il movimento fece fiorire poeti e musicisti. Durante il dominio ottomano si crearono rami di dervisci nei Balcani, Siria, Libano Egitto, con presenze anche a Gerusalemme. Attualmente sono molto presenti a Istanbul.
Dunque alle due domande iniziali si deve rispondere in modo affermativo e ciò può sembrare strano per le nostre liturgie così compassate e a volte, mi si permetta di dire, anche noiose, anche se c’è da dire che nel cattolicesimo africano proprio la danza – caratteristica dei quei popoli – trova spazio anche nelle liturgie.
Ma torniamo ai dervisci. Oggi i dervisci roteanti sono spesso semplici danzatori che si esibiscono per i turisti, soprattutto in Turchia e in Egitto, così come i fachiri in India. Alcuni si esibiscono in pubblico, facendosi trapassare da coltelli, ferri infuocati o inghiottendo carboni ardenti, ma bisogna distinguere tra la vera spiritualità e le manifestazioni diciamo così folkloristiche a vantaggio dei turisti.
A Istanbul ha sede il monastero-museo della confraternita di Dervisci fondato nel 1492 da Şeyh Muhammed e ogni domenica pomeriggio una folla di turisti e di curiosi si raduna davanti al suo ingresso per assistere alla cerimonia del Samà, con le tradizionali musiche sufi e i leggendari dervisci rotanti.
Quando la variopinta e rumorosa folla di turisti ha preso posto, alcuni dervisci-musicisti si dispongono sul fondo della scena e attaccano a suonare. Dopo qualche minuto arriva il gruppo di dervisci-danzatori, che si dispone sulla scena secondo un preciso rituale e dà inizio alle danze. A quel punto una selva di telefonini si leva sulle teste degli spettatori per documentare la cerimonia. I dervisci procedono senza scomporsi di fronte al rumoroso pubblico ma c’è da chiedersi se la cerimonia sia uno spettacolo o una preghiera. In realtà è una forma liturgica del misticismo islamico. Secondo i Sufi, l’universo è composto da vibrazioni, ogni cosa ha una propria sonorità e la danza, forse istituita da un maestro egiziano del IX secolo, praticata nel mondo islamico sin da tempi remoti, avrebbe proprio la funzione di riproporre, celebrandola, l’armonia dell’universo. Dunque, ogni forma di ‘spettacolarizzazione’ della cerimonia sarebbe di per sé inammissibile, tanto più se prevede, come nella maggior parte dei casi, un biglietto d’ingresso. Dobbiamo prendere atto, quindi che, come tante altre forme di rituali un tempo legati all’identità antropologica e religiosa dei popoli, anche il Samà turco ha perduto il suo significato e la sua funzione originari. Tuttavia sopravvive nelle forme spurie che – pur non disattendendo nell’esecuzione il rigoroso rituale prescritto dal suo fondatore nel XIII secolo – si aprono all’esterno per garantire la propria stessa sopravvivenza, in un mondo che sembra più attratto dalla spettacolarizzazione dei riti che non da una profonda e sana spiritualità.
