L’indipendenza è il sogno mai sopito dei siciliani (quelli veri)!
La nostra intervista a Salvatore Musumeci, presidente del M.I.S., in occasione del 7° Congresso di Comitati delle Due Sicilie, a Caserta.
Salvatore Musumeci, presidente del movimento indipendentista siciliano (MIS), dirigente scolastico, storico, pubblicista e scrittore, è tra le personalità più rilevanti nel panorama degli autonomisti regionali italiani; abbiamo voluto incontrarlo in occasione del 7° Congresso dell’Associazione identitaria Comitati delle Due Sicilie, che si terrà a Caserta il 21 e 22 ottobre prossimi.
Buongiorno professore. Ho ritenuto essere stata particolarmente fortunata a ricevere questo mandato da parte del giornale BelvedereNews, nella persona del suo direttore Fiore Marro, di intervistare una figura come la sua che, per poliedricità culturale, ha saputo definire le istanze indipendentiste come un diritto derivante dall’essere Nazione.
D. È proprio da qui che vorrei partire, chiedendole perché la Sicilia dovrebbe considerarsi nazione e dunque avere l’indipendenza.
R. Una storia plurimillenaria conferma lo status di nazione della Sicilia. Crocevia delle culture mediterranee, in essa si sono susseguite innumerevoli forme di governo che nel corso degli anni, promulgando leggi su leggi, hanno contribuito allo sviluppo identitario del popolo siciliano; l’isola è stata un laboratorio d’esperienze storiche, prodromiche per uno sviluppo più attento e sostenibile sia di tutto il continente europeo sia dei paesi che insistono sulle coste del mar Mediterraneo.
Le diverse civiltà in essa avvicendatesi, da quella greca alla disastrosa spedizione ateniese contro Siracusa e Agrigento che distrusse quasi totalmente i meravigliosi templi greci sia dell’omonima valle sia di Selinunte e Segesta, da quella cartaginese a quella romana dopo le guerre puniche, da quella arabo-saracena a quella normanna, dai Barbari agli Spagnoli, dagli Angioini e Aragonesi ai Borbone, hanno fatto della Sicilia un territorio nel quale ogni presenza straniera ha lasciato un segno indelebile del proprio passaggio, contribuendo all’evoluzione culturale del popolo siciliano.
I siciliani sono, come ogni popolo, ma forse ancora più marcatamente d’altri per la natura specifica della loro terra, trattandosi di un’isola, un popolo plurale. Sono molti e uno insieme, caratterizzato da un forte spirito identitario, tale da far nascere un altrettanto forte sentimento di nazione.
La Sicilia è il più antico regno del vecchio mondo ed è stata, con Federico II, una monarchia illuminata ante litteram; in Sicilia è nato il primo parlamento del mondo, nel 1097, anticipando di oltre un secolo quello inglese; i territori del Sud Italia (geografico) costituivano la Sicilia continentale; alla corte palermitana si poetava ancor prima del “Dolce Stilnovo” toscano e notevole è stato contributo dei siciliani per lo sviluppo di tutte le arti.
D. Della Sicilia si parla poco e male, tuttavia personalmente, avendo avuto la possibilità di curare il volume “Uomini del sud” di Marro, tra le 50 interviste, la sua è stata quella maggiormente rivelatrice di quanto la complessità siciliana fosse volutamente occultata. Ci può raccontare quello che accadde il 7 maggio 1946, quando la Sicilia ebbe la possibilità di diventare uno Stato nello Stato, federandosi con quello italiano, con addirittura il potere di “battere moneta”?
R. Lo Statuto di Autonomia Speciale, promulgato il 15 maggio 1946 da Umberto II di Savoia, fu la soluzione per bloccare il separatismo, guidato da Andrea Finocchiaro Aprile leader del Movimento per l‟Indipendenza della Sicilia, che all’indomani dello sbarco alleato del luglio 1943, chiedeva l’affrancamento della Sicilia dallo Stato Italiano e che, nel 1945, aveva avuto anche un’organizzazione paramilitare, l’Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia (EVIS) guidato dal prof. Antonio Canepa. Lo Statuto Speciale ha un’origine “pattizia” ed è scaturito da un accordo fra lo Stato Italiano e la Sicilia (in armi). Fu formulato dalla Consulta Regionale Siciliana, costituita nel 1945, in cui erano rappresentate le categorie, i partiti e i ceti produttivi dell’isola. Se lo Statuto fosse integralmente applicato renderebbe la Sicilia un “quasi” Stato federato con l‟Italia (infatti, trattasi di un ordinamento giuridico ben diverso e più rilevante, rispetto agli altri Statuti concessi alla Sardegna, Valle d‟Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia). La Consulta Regionale, il 23 dicembre 1945, approvò il testo elaborato dalla Commissione e lo trasmise alla Consulta Nazionale, competente a pronunciarsi nella forma e nel merito. In quella sede, Pietro Nenni, Leone Cattani, Luigi Gasparotto si mostrarono nettamente contrari al testo in esame e Luigi Einaudi arrivò a parlare della creazione di “uno Stato nello Stato”, cercando con ogni mezzo di eliminare l’art. 38 in quanto avrebbe potuto consentire alla Sicilia di “battere moneta”. Ma la minaccia separatista travolse le ultime resistenze costringendo ad abbreviare i tempi per l’approvazione. Nonostante l’opposizione di alcuni partiti, soprattutto delle sinistre, lo Statuto ottenne, il 7 maggio 1946, parere favorevole alla sua promulgazione con valore di testo costituzionale da coordinare con la futura nuova Costituzione italiana, monarchica o repubblicana, e il relativo decreto venne pubblicato sulla G. U. del Regno savoiardo, il 10 giugno 1946 n. 133-3.
Di notevole rilievo è l’ampia ed elevata discussione svoltasi presso la Giunta. Essa merita di essere conosciuta attraverso il resoconto sommario della seduta di martedì 7 maggio 1946, citiamo un passo illuminante: “Una esposizione da parte della Giunta di tutti i precedenti parlamentari, legislativi, dei partiti, degli scrittori, fece ritenere che, perlomeno presso la grande maggioranza, il concetto dell’autonomia della Regione sia ormai accolto come un dettame politico, se non addirittura assoluto, certo non soggetto a grande discussione. Si superò anche la obiezione che con l’autonomia della Regione siciliana e la creazione di un precedente di cui avrebbero chiesta l’applicazione altre regioni che hanno già aspirazioni concretate in progetti in corso, si sarebbe arrivati ad un federalismo di Stati sovrani. Questa obiezione traeva la sua ragion di essere anche dal lavoro compiuto per le autonomie locali dal Ministero della Costituente…”. Per tale motivo il centralismo romano si adoperò da subito per bloccare la piena attuazione dello Statuto di Autonomia Speciale della Sicilia.
Come si evince dalla Relazione dell’Alto Commissario al Governo dello Stato sul progetto di Statuto – on. Salvatore Aldisio, dichiarato avversario dell’indipendentismo siciliano – elaborato dalla Consulta di Sicilia: “Nell’accingersi alla elaborazione del progetto di Statuto, la Consulta non intese lontanamente il bisogno di dimostrare in primo luogo se la Sicilia possedesse tutti i caratteri necessari e sufficienti per assurgere a regione autonoma. Non era, infatti, questo dell’esistenza materiale e spirituale della regione un problema da precisare e risolvere, bensì un dato di fatto indiscutibile, offerto dalla stessa natura dell’anima isolana, dall’economia, dal diritto e dalla storia dell’intero popolo siciliano. L’Isola che i tre mari circondano e le più diverse dominazioni straniere educarono al dolore ed alle privazioni, rafforzandone pertanto il fiero, innato senso di unità (…) Invero, l’esagerato accentramento di funzioni pubbliche, la politica governativa partigiana e vantaggiosa solo ad altre Regioni d’Italia, specie del Nord, l’impossibilità di sviluppare liberamente e pienamente ogni energia locale, la tutela diretta degli interessi propri del popolo isolano, hanno viepiù riscaldata, massima in questo dopoguerra, la coscienza dei siciliani anelanti ad una autonomia immediata, alta forma di riparazione, esigenza profonda di giustizia.
Nessuno può ormai negare la forza di tali cause e l’impellente bisogno di rimediarvi. Onde è che la Consulta, interprete solerte della situazione, ha voluto rispondere al suo nobilissimo dovere, venendo incontro alle giustificate e unanimi richieste della sua terra”.
Come si può notare, per sedare la “voglia d’indipendenza” della Sicilia, ci fu data una “bomba” in chiave federalista, ma immediatamente tutti i partiti centralisti, con la complicità dei politici ascari siciliani, si attivarono per disinnescarla.
Aveva ragione, infatti, l’on. Attilio Castrogiovanni quando, rilevando come il Governo italiano, all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, disattendesse alla promulgazione delle norme attuative dello Statuto, così commentava: “Ci hanno dato un cannone e lo hanno ridotto a un giocattolo”.
Proprio la mancata emanazione delle norme attuative dello Statuto ha di fatto “annulato” gli articoli 36, 37 e 38, proprio quelli più rilevanti che avrebbero potuto cambiare positivamente le sorti politico-economiche della Sicilia. Ciò che i siciliani non comprendono è che la mancata applicazione integrale dello Statuto determina una continua violazione della Costituzione italiana (essendo lo Statuto parte integrante della stessa Costituzione).
D. Vorrei, ora, porre l’attenzione sui rapporti tra l’identitarismo siciliano e quello del Mezzogiorno continentale, in particolare quello borbonico. I Borbone infatti paiono essere il pomo della discordia tra queste due realtà, in quanto la prima, sposando peraltro la narrazione post unitaria, considera il periodo storico borbonico come un tempo di assolutismo di cui fecero le spese le classi meno agiate, mentre la seconda definisce quel contesto storico, non solo fruttuoso economicamente e culturalmente ma soprattutto caratterizzante la propria identità di popolo, non primitiva, parassita e assistenzialista, ma colta, laboriosa, capace di intraprendere.
Chiedo umilmente venia, ma l’idea siciliana mi appare quantomeno parziale. I Borbone, ad esempio, ebbero il merito di limitare il potere della feudalità, di cui il territorio siciliano era vittima; inoltre lo stesso fatto che unirono il Regnum Siciliae citra Pharum (Regno di Napoli) e Regnum Siciliae ultra Pharum sotto il nome delle Due Sicilie, con molta probabilità, sta ad indicare, lapalissianamente, il primato che i Borbone vollero dare alla Sicilia, di fronte alla storia, come Regno!
La sua opinione a riguardo.
R. Come già detto precedenti volte all’amico fraterno Fiore Marro, se consideriamo che il Regno di Sicilia aveva i suoi territori nel continente, non possiamo negare che c‟è stato e continua ad esserci un forte legame storico, in parte linguistico e di sangue. Si tratta di popoli fratelli, con usi, costumi, religiosità e tradizioni per lo più uguali o molto simili. Insomma, ci comprendiamo al volo, anche senza parlare. Sicuramente la Sicilia ebbe un’amministrazione migliore con Casa Borbone che con quella dei Savoia.
Re Ferdinando dimorò a Palermo dal dicembre 1798 al giugno 1802 e poi, durante l’occupazione francese di Napoli (con il governo di Gioacchino Murat), dal gennaio 1806 al giugno 1815. In quel periodo, il protettorato britannico con i suoi rilevanti sussidi per sostenere le spese di governo, la presenza d’un esercito straniero e gl’investimenti di capitali inglesi nell’isola comportarono la crescita delle attività industriali, agricole e commerciali dando prosperità e benessere economico ai siciliani. Nei decenni a cavallo tra i due secoli, numerose e complesse situazioni portarono, però, il baronaggio isolano a scegliere il sistema costituzionale inglese come modello politico e come riferimento culturale; giocarono un importante ruolo: la paura degli eccessi rivoluzionari, l’antico misogallismo, l’ampia diffusione della giuspubblicistica e della cultura inglese e, durante il decennio murattiano, la protezione della flotta e delle truppe britanniche, insieme con la sagace influenza del ministro plenipotenziario William Bentinck.
L’Inghilterra appoggiò i progetti dei gruppi dominanti siciliani per garantire il massimo consenso locale al suo protettorato e, soprattutto, per collocarsi quale garante e vessillo, in Europa, dei princìpi di libertà e d’autogoverno nazionali. Così, la costituzione votata a Palermo dal Parlamento straordinario del 1812, moderata e rispettosa dell’ordine sociale e politico preesistente, rappresentò per la Sicilia la fase di transizione dalle istituzioni tipiche d’una monarchia feudale a istituzioni più moderne ed europee.
Con la restaurazione, determinata dal Congresso di Vienna del 1815-16, su iniziativa dei ministri Luigi de’ Medici e Donato Tommasi, l’8 dicembre del 1816 fu promulgato il decreto d’unificazione dei due regni e il sovrano, non più terzo di Sicilia e quarto di Napoli, assunse il nome di Ferdinando I, Re delle Due Sicilie. In tal modo fu sancita la dissoluzione del regime costituzionale siciliano e l’isola perdette i suoi privilegi e il suo particolarismo istituzionale.
Nel quinquennio 1815-1820, il governo di Ferdinando I mirò a costruire in Sicilia lo Stato post-feudale attraverso la riforma delle istituzioni giudiziarie e amministrative. Furono estesi all’isola, e mantenuti a Napoli, i più moderni ordinamenti realizzati durante il decennio di governo di Murat: l’istituzione delle intendenze e la creazione della Corte dei Conti siciliana, le leggi sull’organizzazione giudiziaria e sul contenzioso amministrativo, sull’abolizione dei fedecommessi e sulla successione feudale.
Nel 1819 furono promulgati i codici, redatti sulla codificazione napoleonica. All’antica società di ordini, si sostituiva in Sicilia il nuovo Stato burocratico borbonico: l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la certezza del diritto e delle garanzie procedurali e la razionalizzazione del sistema amministrativo divenivano realtà e valori civili. La Rivoluzione francese, come forza demolitrice dei vecchi assetti giuridici e politici, era giunta nell’isola attraverso l’azione della monarchia restaurata.
Ciò nondimeno, sia i siciliani sia i napoletani diedero corso ai moti costituzionali del 1820-21, inserendosi nell’insurrezione internazionale contro l’assolutismo. Di fronte alla criticità degli eventi, che videro l’ampia partecipazione di militari borbonici a fianco dei popolani, Ferdinando I promise la concessione d’una Costituzione.
In Sicilia la ribellione si colorò d’indipendentismo ed entrò in collisione col governo napoletano che, pertanto, inviò nell’isola un esercito al comando del generale Pietro Colletta con lo scopo di reprimere il tentativo separatista. Nel marzo 1821, un esercito austriaco ebbe definitivamente ragione degli insorti e il Borbone ripristinò il proprio potere assoluto.
Ferdinando, tutto sommato, non fu un pessimo Re, ma i siciliani, che più volte l’avevano accolto e protetto, non gli perdonarono la sua predilezione per Napoli. Giurarono, anzi, solennemente di fargliela pagare… e con gl’interessi!
Tutto ciò, probabilmente, avrà indotto Casa Borbone a denominare l’unione delle due corone: Regno delle Due Sicilie. I popoli del sud sono accoglienti, solari, capaci, furbi (e questo a volte diventa difetto), intelligenti. Allo stesso tempo, purtroppo, sono i peggiori nemici delle loro terre!
D. Il movimento indipendentista siciliano è favorevole al dialogo con i partiti del sistema italiano, in questo senso favorisce una collaborazione esclusivamente culturale o anche elettoralistica? Quale differenza vede tra meridionalismo, che si definisce parte di una nazione, e identitarismo, che facendo emergere l’identità, ha come finalità ultima prima l’autonomismo e poi l’indipendentismo?
R. Non abbiamo avuto timore di confrontarci con i partiti italiani che, in Sicilia, dovrebbero essere autonomisti a prescindere dal centralismo romano. Preferiamo favorire, quando è possibile, una collaborazione esclusivamente culturale e non certamente elettoralistica. Tra l’altro, ci poniamo come pensiero politico trasversale. Infondo, anche il meridionalismo dovrebbe essere così, ovvero trasversale. C’è un’identità meridionale con all’interno due forti sentimenti nazionalisti: siciliano e napoletano, che partono da storie diverse. In Sicilia si sviluppa in epoca molto antica, a Napoli con l’arrivo degli Angioini, scacciati in malo modo dai siciliani con la Rivoluzione del Vespro del 1282.
Antonio Gramsci riconosce la “Questione Meridionale”, con all’interno una “Questione Siciliana”, ben precisa. È mancata nell’esperienza storica del meridionalismo e del regionalismo siciliano la presenza di una forza politica autenticamente autonomistica, radicata nel territorio e realmente rappresentativa degli interessi e dei bisogni dei Popoli del Sud. A differenza delle altre regioni “forti” dell’Europa, come la Baviera o la Catalogna, dove i partiti regionali sono stati il motore dello sviluppo locale, e delle stesse regioni del Nord Italia dove oggi la Lega esprime livelli dignitosi di autogoverno, nel Meridione è mancata la possibilità di creare forze politiche territoriali forti e convergenti, e i popoli hanno preferito la rassegnazione. In Sicilia i partiti nazionali ieri e oggi hanno piegato lo Statuto a prevalenti logiche “romane”, che hanno strumentalizzato in modo assistenziale e “dipendente” l’Autonomia così faticosamente conquistata in virtù della specialità storica e culturale dell’Isola.
Di conseguenza, la questione siciliana, come quella meridionale, è stata relegata a fatto marginale o, peggio ancora, ridicolizzata con vicende umane e di folclore, in modo da togliere credibilità e valore al divario esistente tra Nord e Sud.
Centosessant’anni di speranze tradite, barattate con scampoli di privilegi alle classi dirigenti siciliane avvinte nella pania dell’ascarismo, col malcelato scopo di sopire quel fremito di tradimento che i siciliani avvertono ancora per le illusioni di benessere e sviluppo riposte nello Stato Italiano, dai Savoia in poi, e miseramente naufragate. Tutto questo per rimuovere alla radice e togliere qualunque possibilità di sfogo a quella tentazione all’indipendenza che pure è ancora nel Dna degli isolani e dei popoli meridionali.
Dopo tanti anni di mala unità, ritorna preponderante il pensiero dei grandi patrioti, come Vincenzo Gioberti, Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini. L’auspicio è quello di uno Stato composto o federalista, concepito non solo come decentramento politico ma anche come giusta ripartizione della sovranità, sancita dallo jus cogens e così come stabilito anche dalla Carta adottata dalle Nazioni Unite (26 giugno 1945 art. 1, par. 2 e 55, artt. 73 e 75), nonché dalla conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea del 1975, concernente il diritto di autodeterminazione dei popoli e ratificato dall’Italia con la Legge n. 881/1977. Quindi uno Stato come unità di ordine superiore volto a garantire il rispetto dei diritti umani e l’applicazione della democrazia intesa in senso orizzontale e paritetica .
Tutto ciò, non solo attualizza lo Statuto Siciliano, ma ne rende indifferibile la sua applicazione.
Resta sempre viva la speranza che la Sicilia, e la Napolitania (aggiungiamo noi), come auspicava Leonardo Sciascia in un suo articolo pubblicato dal quotidiano L’Ora il 22 aprile 1965, “possa esprimere una vera classe dirigente; ma forse bisognerebbe che quell’Autonomia acquisita nei riguardi dello Stato si riflettesse all’interno dei partiti. Dico forse. E innanzi tutto bisognerebbe che i siciliani onesti e intelligenti cominciassero a contarsi tra loro. Appunto come l’antico scrittore diceva degli schiavi: Se gli schiavi si contassero?”.
Siamo convinti che, prima o poi, ciò accadrà e la Sicilia e i Popoli Meridionali, lasciando il mortificante ruolo di Cenerentola, forzatamente imposto dal “sistema Italia”, torneranno nuovamente Sovrani!
D. In un mondo globalizzato l’idea di Nazione può apparire come un anacronismo e, tuttavia, si assiste ad una riacutizzazione del sentimento identitario. In che modo conciliare i due aspetti nell’attuale società?
R. La globalizzazione tende a fluidificare le società umane annichilendo il pensiero soggettivo per dare spazio ad un pensiero unico, coincidente con quello elitario di coloro che detengono i potentati economici e/o occulti. Si va verso la “virtualizzazione” delle persone, condizionandone la vita, le abitudini e le attività quotidiane. Diversi decenni fa era compito della politica indirizzare l’economia, oggi avviene il contrario. In Italia, i leader dei partiti fanno sempre più fatica a comprendere che la personalizzazione della propaganda è deleteria, sia perché le persone, più che seguire un individuo, vorrebbero seguire le idee e un progetto serio – magari la più audace, la più originale e la più mediterranea delle idee –, sia perché, soprattutto in questa lunga fase politica così fluida, confusa e superficiale, non esistono più uomini di riferimento.
Un’analisi storica comparata del manifestarsi, dell’affermarsi o dell’assopirsi delle spinte nazionalistiche che hanno condizionato e spesso determinato gli eventi degli ultimi due secoli aiuta a comprendere la natura e le forme di questo atteggiamento politico, economico e culturale e consente di riconoscerne i germi e le manifestazioni (palesi e latenti) nella società di oggi. Più difficile, al di là di un percepibile generalizzato incremento, è coglierne l’andamento e la prospettiva. Influenzata quotidianamente dagli avvenimenti globali – in una condizione di “connessione permanente” che sembra azzerare le distanze spaziali e temporali – l’opinione pubblica ondeggia fra slanci di solidarietà e arroccamenti difensivi, fra richieste di trasparenza e democrazia e desiderio di uomini forti, di messia capaci di capovolgere in cento giorni le situazioni complesse portando i paesi fuori dallo stallo. Certamente c’è una insofferenza nei confronti delle istituzioni e della politica esistente. Riappropriarsi dei propri sentimenti identitari, che sono strettamente correlati con l’idea di appartenenza ad una Nazione, non è cosa deleteria, anzi!
Si può essere cittadini del mondo mantenendo la propria identità culturale e nazionale, esse rappresentano il valore aggiunto per fare meglio e, insieme ad altre realtà, progredire e migliorare l’umanità. Questa, a nostro avviso, dovrebbe essere la giusta strada.
D. La sfida del ricambio generazionale è urgente anche nei movimenti identitari. Partendo dal suo osservatorio in prima linea di Dirigente Scolastico, come pensa si possano informare e formare i giovani in questo senso?
R. Occorre stimolare nei giovani la ricerca della verità, soprattutto storica, su ciò che è avvenuto in passato e che avviene ai giorni nostri. Poiché, scriveva Cesare Pavese, “Quando un popolo non ha più senso vitale del suo passato, si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato. Si diventa creatori anche noi quando si ha un passato”.
Per dare un mio modesto contributo, ho recentemente (gennaio 2023) dato alle stampe una mia opera, in quattro volumi, Storia e Storie di Sicilia (Dalle origini al primo periodo dei Borbone – Dal Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia – Dal primo dopoguerra a Portella della Ginestra e fino ai giorni nostri – Cultura popolare, Religiosità e Folklore).
In un’epoca di imperante globalizzazione è facile perdere la memoria del proprio passato, soprattutto se di esso si conosce ben poco. L’essere “cittadini del mondo” non significa rinunciare alla propria identità, ma promuovere e coniugare positivamente le diversità. Purtroppo, una damnatio memorie impera da oltre 160 anni sulla Sicilia e i siciliani, consolidando l’assunto che l’Isola sia sempre stata una colonia con un popolo incapace e sottomesso. Di conseguenza è risultato facile ridurre i lemmi Sicilia e siciliani a sinonimi di povertà economica, culturale e spirituale; arretratezza; sottosviluppo; assistenzialismo… e se poi si aggiunge mafia e mafiosità, non rimane più nulla di salvabile. Per cancellare un popolo basta togliergli la lingua parlata e la memoria storica: perderà l’indentità e l’orgoglio di essere. Infatti, abbiamo perso tutto! Siamo stati deculturalizzati, desicilianizzati e colpevolizzati; e tutto ciò è avvenuto con la complicità della classe politico-dirigente siciliana. Come spiega il giornalista Pino Aprile (nel suo Terroni, ed. Piemme 2010): “È accaduto che i meridionali (nel caso nostro, i siciliani) abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto. Così, la resistenza all’oppressore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta vergogna”. Verosimilmente, proprio per nascondere questa presunta “vergogna” abbiamo preferito studiare (leggasi: siamo stati costretti), la storia scritta dai vincitori – su manuali pubblicati altrove –, relegando la storia della nostra Isola nel dimenticatoio, quasi come atto d’abiura identitaria. I volumi Storia e storie di Sicilia, ponendosi in sintonia con la ratio della Legge Regionale n. 9, del 31 maggio 2011, “Promozione, valorizzazione ed insegnamento della Storia, della Letteratura e del Patrimonio Linguistico siciliano nelle scuole”, rappresentano un sussidio per docenti e studenti e per quanti hanno voglia di “conoscere per riconoscersi”. Turpe est in patria vivere et patriam ignorare, (Plinio il Vecchio).
D: Progetti per il futuro?
R. Chiudo con la stessa risposta data a Fiore Marro, qualche anno fa.
L’indipendenza è il sogno mai sopito dei siciliani (quelli veri). Noi crediamo, guardando anche alla recente esperienza catalana, che bisognerebbe ripensare l’assetto costituzionale italiano in chiave federale (ovvero, una Repubblica Federale) e vi sono tanti esempi anche in Europa; si potrebbero creare delle Regioni dotate di vera autonomia legislativa e con diritto di tribuna sia nel parlamento federale che in quello europeo. Si dovrebbe passare dall’unitarismo all’unionismo solidale, promuovendo il livellamento economico tra regioni del nord e regioni del sud. Non vedo altre strade, almeno per il momento. Certamente si potrebbe pensare alla confederazione degli Stati Duosiciliani, ma essendo ormai nel “sistema Italia” non è facile uscirne. Però, un serio ripensamento costituzionale non è una chimera! Certamente a proporlo dovrebbero essere forze politiche territoriali. Pertanto, risulta urgente dar vita ad una coalizione meridionalista ovvero duo siciliana.
Confesso che a volte vorrei mollare tutto, ma poi non riesco a farlo. Ci auguriamo di poter contribuire alla nascita di una grande coalizione politica pro Sicilia utile anche al sud. Tutto ciò può avvenire solo attraverso il dialogo con altre forze sane, ma molto spesso si perde tempo con il demone dell’ascarismo, di cui ho già parlato. E allora? Con un po’ di romantico sentimentalismo, guardando la bandiera siciliana e quella borbonica presenti nel mio studio, non abiurando al mio sentire repubblicano, vi saluto fraternamente: Forza e Onore, Viva le Due Sicilie!