Oltre l’Unesco: il cibo come diritto, lavoro e cultura viva

L’editoriale

Il cibo non è soltanto un simbolo identitario o un patrimonio da celebrare, ma un elemento vitale che attraversa la quotidianità di ciascuno di noi. È relazione, perché lega chi produce e chi consuma; è lavoro, perché dietro ogni piatto ci sono mani che coltivano, allevano, trasformano; è cultura, perché racconta storie e tradizioni che si tramandano di generazione in generazione.

 

 

 

 

Ridurlo a mondanità o a semplice folklore significa ignorare la sua dimensione materiale e sociale, quella che riguarda l’accesso, la qualità e la dignità di chi lo rende possibile. La cultura elitaria e reazionaria ha saputo appropriarsi del tema, trasformandolo in un manifesto identitario che richiama la famiglia, la casa, la tradizione. Ma dietro questa retorica si nasconde una visione liberista che considera il cibo solo come merce, da vendere al prezzo più basso, anche a scapito dell’ambiente, del lavoro e della salute. Spesso dimentichiamo che il cibo è il primo bisogno da cui partire, è garantire a tutti un accesso equo e sano. Un approccio consapevole e responsabile deve essere diverso: deve riconoscere che il cibo è un diritto e che la sua produzione e distribuzione non possono essere lasciate alle sole logiche di mercato.


Significa tutelare i piccoli produttori e le economie locali, che custodiscono saperi e qualità, ma anche garantire condizioni di lavoro giuste per chi opera nei campi e nelle cucine. Significa affrontare il tema della sostenibilità non come moda, ma come necessità per preservare il suolo, l’acqua e la salute collettiva. Il cibo è anche linguaggio e immaginario: racconta chi siamo e come viviamo. Recuperare questa dimensione non vuol dire rifugiarsi nel passato, ma costruire un nuovo racconto che tenga insieme tradizione e innovazione, radicamento e apertura.

 

 

Foto dal web.