Il volume del giornalista Ferdinando Terlizzi, collaboratore di Cronache di Caserta,
decano dei cronisti giudiziari di Terra di Lavoro e riconosciuto senatore
dell’informazione in Campania, ricostruisce con rigore documentale e tensione
narrativa il delitto e il processo al dottor Luigi Carbone, una delle più emblematiche e
controverse vicende giudiziarie del primo Novecento, paradigma crudele di una
cultura dell’onore che per decenni ha trovato legittimazione anche nelle aule dei
tribunali.
La storia:
All’alba del 1° aprile 1922, a Lapio, in provincia di Avellino, il dottor Luigi Carbone
sgozzava nel sonno la giovane Bellinda Campanile, da lui sposata appena otto giorni
prima, infliggendole una morte feroce e rituale. Un gesto compiuto, secondo la sua
stessa ammissione, per punirla del “fallo” di non essere giunta “pura” alle nozze, di
averlo ingannato e di aver così colpito il suo onore e la sua dignità.
Compiuto l’uxoricidio, con un sangue freddo che ancora oggi inquieta, Carbone si
lavò le mani intrise di sangue, si vestì con scrupolosa normalità ed uscì di casa dopo
aver raccomandato alla madre di non svegliare Bellinda finché egli non fosse tornato
dalla stazione ferroviaria, dove disse di doversi recare.
In realtà si diresse al caffè gestito dai coniugi Fusco e, dalla soglia, esplose cinque
colpi di rivoltella contro la giovane Elena Fusco, ferendola mortalmente.
Perché uccise anche lei? Nel primo interrogatorio Carbone dichiarò di aver voluto
colpire, negli affetti più intimi, Oreste Fusco, ufficiale di fanteria e fratello di Elena,
al quale Bellinda avrebbe attribuito il proprio “peccato”. In un secondo interrogatorio
sostenne invece che Elena Fusco aveva favorito la tresca del fratello.
La singolare e disturbante complessità del processo emerge con forza dagli
interrogatori dell’imputato: documenti che rivelano uno spirito labirintico, fatto di
ombre e improvvisi bagliori, di razionalizzazioni e di abissi interiori. Perché, sebbene
i giudici abbiano espresso il loro convincimento, il “problema Carbone” resta ancora
oggi aperto alle speculazioni dello psicologo, dello psichiatra e dello storico del
diritto.
Un’aspra battaglia giudiziaria, segnata da udienze numerose e roventi, condusse a un
verdetto con cui i giurati esclusero la premeditazione, affermarono il vizio totale di
mente per l’uxoricidio e quello parziale per l’omicidio di Elena Fusco, concedendo
infine le attenuanti.
Chi visse quelle giornate non può non considerare, con amara tristezza, che a quel
verdetto – pur definito vittoria della giustizia – non corrispose pienamente la
sentenza, che ne ridusse la portata a un valore quasi simbolico, condannando Carbone
a soli trenta mesi di reclusione.
La vicenda giudiziaria:
Il dibattimento durò otto giorni, dal 12 al 18 giugno 1923. La famiglia di Bellinda
Campanile non si costituì parte civile. I genitori di Elena Fusco furono assistiti da un
collegio difensivo di primissimo piano: gli avvocati Rodolfo de Marsico, Guido
Cocchia, Mattia Limoncelli e Alfredo de Marsico.
De Marsico, a chiusura della sua memorabile arringa, ammonì i giurati con parole
destinate a rimanere scolpite nella storia forense:
«Sul vostro verdetto, o giurati, si spiega l’attenzione dell’Italia. Per l’onore della
nostra Irpinia, per il vostro onore, serrate le file!»
Difesero Luigi Carbone gli avvocati Francesco Fragomele, Ignazio Scimonelli,
l’onorevole Alfonso Rubilli e Giovanni Porzio. Fu proprio Porzio a definire il delitto
“mezzo santo e mezzo ingiusto”, affidando alla sua arringa un passaggio destinato a
suscitare clamore:
«Ed invece di quest’ironica menzogna, scritta sulle pareti di queste aule, che ci dice
come la legge sia uguale per tutti, io vorrei che su questi muri si imprimessero le
grandi parole di Carlo Richet: se un Dio sedesse nei Tribunali, egli sarebbe d’una
inalterabile indulgenza per le colpe del dolore umano. Il senso di queste parole
illumini le vostre menti ed ispiri il vostro verdetto».
Il libro di Terlizzi non è soltanto la ricostruzione di un processo, ma una riflessione
profonda sul delitto d’onore, su quella norma che per decenni ha giustificato
l’omicidio femminile in nome di una presunta offesa alla virilità maschile. Una
norma abolita solo nel 1981, i cui effetti culturali e simbolici continuano tuttavia a
riverberarsi nel presente, come dimostrano i femminicidi che ancora oggi
insanguinano le cronache, figli di una mentalità che fatica a riconoscere pienamente
la libertà e la dignità della donna.
L’evento:
La raffinata kermesse culturale è stata organizzata dalla Università delle Tre Età di
Santa Maria Capua Vetere (Unitre).
Dopo i saluti istituzionali del professor Bartolomeo Valentino, insigne presidente
della Unitre, la professoressa Giuliana Scolastico, direttrice dei corsi, ha presentato i
relatori e moderato con autorevolezza il dibattito.
Il primo a prendere la parola è stato il Procuratore Generale emerito della Corte di
Cassazione, dottor Raffaele Ceniccola, autore della prefazione dell’opera, che ha
intrattenuto il pubblico soffermandosi sulla norma del delitto d’onore, sulla sua
abolizione e sui profondi riflessi che essa ha avuto e continua ad avere sulla società
civile.
È poi intervenuto l’avvocato Fabio D’Aniello, curatore della postfazione, ribadendo
con chiarezza i profili giuridici e le evidenti contraddizioni di una norma finalmente
cancellata dall’ordinamento.
L’editore Giuseppe Vozza ha sottolineato la solidità e il valore delle opere di Terlizzi,
testimone appassionato di un impegno editoriale costantemente rivolto alla memoria
storica e giudiziaria, non nuovo a significativi successi editoriali.
Ha concluso l’autore, svelando un retroscena inedito: un nipote dell’assassino,
avvocato residente nel Nord Italia, gli ha confidato i dettagli del dopo-delitto e della
nuova vita del nonno, il medico Luigi Carbone.
Terlizzi ha infine annunciato il suo prossimo libro, già in libreria, che sarà presentato
sempre al Museo Civico nel mese di maggio 2026: La Gran Corte Criminale di Santa
Maria di Capua, edito da Giuseppe Vozza Editore.
Il libro:
Un’opera che analizza il processo di un monaco accusato dell’omicidio del suo
padrone e della figlia; l’assalto delle Br alla caserma Pica, l’assassinio del magistrato
sammaritano Nicola Giacumbi, ucciso a Salerno dalle Br; l’uccisione del padre del
direttore del carcere di Cuneo, da parte di Raffaele Cutolo, maresciallo Contestabile;
la soppressione del comandate degli agenti di custodia del carcere sammaritano
Pasquale Mandato; l’assassinio dell’autista di Carlo Alberto Dalla Chiesa,
l’appuntato sammaritano Domenico Russo al quale l’Amministrazione Comunale ha
intitolato una strada. Il libro tratta poi con tutti i particolari il processo agli anarchici
sammaritani, accusati di aver ucciso l’avvocato Liquori e il carabiniere Leone. Infine
il caso dell’assassinio del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, il cui processo fu
assegnato a Santa Maria (1960) per legittima suspicione.
Nel dibattimento furono impegnati Sandro Pertini e Giuseppe Garofalo, in difesa
della mamma della vittima. L’istruttoria fu portata avanti da dal giudice Pietro
Scaglione, assassinato anni dopo da Luciano Liggio. Lo scrittore Carlo Levi, autore
di Cristo si è fermato a Eboli, seguì il processo e scrisse un libro Le parole sono
pietre. Alla condanna di 4 ergastoli a Santa Maria fece eco l'assoluzione a Napoli per
insufficienza di prove. Oltre a Ciro Maffuccini, Pompeo Rendina e Taormina a
Napoli fu aggiunto Giovanni Leone.
La prefazione è stata curato dal magistrato Oscar Bobbio, mentre la postfazione è
stata realizzata dal penalista Giuseppe Stellato. •
Un lavoro di ricerca mastodontico, un libro monumentale che attraversa alcuni dei
più drammatici processi della storia giudiziaria italiana, confermando ancora una
volta il ruolo di Ferdinando Terlizzi come custode della memoria giudiziaria del
Mezzogiorno.